Università e ricerca: le proposte PD
La nuova stagione politica avviata con l’insediamento del governo guidato da Mario Monti contiene in sé i tratti dell’emergenza e, al contempo, la volontà di riattivare lo sviluppo, a partire dagli interventi di stabilizzazione e riforma necessari per superare la drammatica condizione economica e sociale italiana ed europea. Emergenza e speranza sono tratti che si proiettano con la medesima intensità nell’azione di governo relativa all’università e la ricerca.
Il Partito Democratico guarda a questo “impegno nazionale”, che rappresenta la cifra costitutiva del governo Monti, con apprezzamento e interesse, e intende partecipare a questa fase attraverso il sostegno politico e parlamentare, accompagnato da un’azione di stimolo e proposta che, su questi temi, prende le mosse dalle posizioni programmatiche elaborate dall’Assemblea nazionale e dalle posizioni assunte nell’iter parlamentare che ha condotto, con la nostra ferma opposizione, all’approvazione della Legge 240/2010.
In questo documento intendiamo affrontare i temi che, a nostro avviso, riguardano più direttamente l’agenda per l’università e la ricerca del governo, in ragione della sua natura costitutiva e della combinazione di vincoli e opportunità ad essa connessi. Crediamo pertanto che, tanto più in questo tratto finale di legislatura, sia opportuno concentrare l’attenzione principalmente sul terreno dell’attuazione della L. 240. Al contempo intendiamo sviluppare, a partire da gennaio, una riflessione che ci conduca ad aggiornare il nostro programma, ponendo il sistema universitario nell’ambito di una visione complessiva da un lato delle politiche per la ricerca e l’innovazione quali nucleo essenziale delle azioni per la crescita e la competitività del Paese, e dall’altro del sistema dell’istruzione quale elemento fondante per la qualificazione delle risorse umane e per favorire la mobilità sociale e creare occupazione di qualità.
Siamo convinti che nel processo di attuazione della L. 240 vi siano, nonostante tutto, notevoli spazi per attenuare gli effetti più negativi della legge, e così da fare di questa fase una sorta di ponte, che renda più stabile e efficiente il sistema, e meno confuse le regole e le prassi che lo governano, e da porre dunque le basi per un suo effettivo rilancio. Particolare attenzione dovrà essere riservata alle indicazioni contenute nella lettera con la quale il capo dello Stato accompagnava, esattamente un anno fa, la sua promulgazione, facendo esplicito riferimento alle questioni delle risorse, delle carriere dei giovani ricercatori e del diritto allo studio, ed alla necessità di ricercare, da parte del governo, un “costruttivo confronto con tutte le parti interessate”.
La natura e i compiti di questo governo richiamano alcune ulteriori indicazioni di fondo. La prima è la necessità di tener conto degli impegni che, anche in questa materia, il governo ha assunto rispetto alle istituzioni europee, richiamate da ultimo nel Report conclusivo dell’Eurogruppo del 29 novembre scorso. Crediamo poi che questo governo sia nelle condizioni ottimali per attuare una revisione di procedure e prassi operative, mirando alla trasparenza di dati, processi e obiettivi: in particolare il riferimento è alla connessione tra dati sul sistema – già disponibili – e obiettivi dell’azione di governo, e ai processi decisionali, con riferimento anzitutto alla ripartizione delle risorse per le università, i progetti e gli enti di ricerca.
L’attuale situazione richiede, in altri termini, una prima condivisione – con gli interlocutori politici e parlamentari, il mondo accademico e la più generale opinione pubblica – delle condizioni di partenza e degli obiettivi, sulla base dei quali porre in essere un tessuto di azioni e misure capaci di ridare dignità e sviluppo a politiche che, è opinione unanime, sono essenziali per la crescita economica, civile, democratica.
1. Le condizioni di partenza
Il nostro giudizio sulle politiche universitarie nell’ultimo decennio, quasi esclusivamente governato dal centrodestra berlusconiano, è netto: si è affermata una cultura che nel complesso ha mostrato scarsa considerazione, quando non aperta ostilità, nei confronti del mondo dell’università e della ricerca. Con una ulteriore accelerazione negli ultimi 3 anni e mezzo, per l’operare congiunto di interventi legislativi errati e in ogni caso carenti in termini di capacità di introdurre le riforme necessarie, e di una compressione di grande rilievo delle risorse ordinarie per il sistema universitario e della ricerca, già ampiamente sottofinanziato rispetto alle medie europee e OCSE. In altre nazioni gli investimenti in ricerca scientifica sono stati fra i pochissimi risparmiati dalle politiche di austerità imposte dalla crisi economica; in Italia il precedente governo, pur aumentando la spesa pubblica, ha tagliato senza criterio le infrastrutture della conoscenza. Per cambiare passo, occorre avviare una fase di rilancio che consideri finalmente ricerca ed innovazione i principali motori della crescita economica di una nazione moderna e tenga conto dell’importanza dell’economia dell’apprendimento nell’attuale contesto internazionale. Agire in questa direzione appare sempre più urgente, perché oggi la ricchezza delle nazioni si misura non solo sul denaro, ma sulla condivisione della conoscenza e sulla capacità continua di evolversi, di innovare e di attrarre talenti. È sempre più necessario ripensare l’intero sistema economico a partire da questo nuovo paradigma.
A partire dalla ricerca, l’asimmetria tra risorse (ridottissime) e risultati (molto positivi) è un dato che deve da un lato rassicurare sulla tenuta complessiva del nostro sistema educativo, e dall’altro indurci a comprendere che c’è ancora la possibilità di non perdere il treno della competizione internazionale. I numeri ci dicono che il nostro Paese si colloca tra il settimo e l’ottavo posto nella graduatoria fra le nazioni, con una crescita del numero annuo di pubblicazioni che fra il 1996 e il 2008 è stata la più alta fra i paesi del G8. Per converso, è noto che i nostri investimenti in ricerca sono in ritardo rispetto agli standard europei, con un trend negativo che nel 2011 ci porterà a scivolare al dodicesimo posto al mondo per investimenti assoluti, mentre l’investimento in percentuale sul PIL ci vede da tempo ben oltre il 25° posto, con un 1,18% (dato 2008) lontanissimo dall’obiettivo del 3% che il Summit di Barcellona del 2002 fissava come obiettivo da raggiungere entro il 2010, e che la Strategia Europe 2020 indica adesso per il 2020.
Anche nell’istruzione universitaria l’Italia mostra un considerevole ritardo rispetto ai migliori standard internazionali, dovuto in particolare agli scarsi investimenti sia nel sistema universitario che nel diritto allo studio. La percentuale di laureati nella popolazione italiana fra i 30 e i 34 anni è pari al 19%, contro una media europea di oltre il 30%. Quasi due terzi dei nostri laureati provengono da famiglie con almeno un genitore laureato, un dato indicativo di un sistema di sostegno allo studio drammaticamente insufficiente a garantire la mobilità sociale sancita come principio costituzionale, e di una società nella quale più che capacità e merito vengono premiate le condizioni culturali e socio-economiche di partenza. Non a caso, la percentuale di studenti universitari che fruisce di borse di studio in Italia è pari al 9%, da confrontare con i dati delle principali nazioni europee, tutte vicine od oltre il 25%. A fronte di investimenti nel diritto allo studio del tutto insufficienti, le nostre università impongono tasse universitarie fra le più alte del continente (terzo posto tra gli Stati membri dell’UE).
2. Ricostruire la fiducia tra gli italiani e l’università
In questi anni l’azione e la capacità innovativa degli atenei italiani si è indebolita. Politiche sbagliate, un costante attacco mediatico alla credibilità del sistema, partito da gravi episodi di malcostume da estirpare con decisione, hanno finito col travolgere la fiducia del nostro Paese nell’intera università. L’obiettivo primario dell’azione di governo deve essere dunque quello di ristabilire la fiducia e di ridare credibilità al nostro sistema universitario, nella consapevolezza – espressa dal ministro Profumo già nei suoi primi interventi – del ruolo cruciale che proprio l’università, nel suo complesso e attraverso l’azione dei singoli atenei nei rispettivi territori di riferimento, può giocare per la ripresa. Per un Paese che non “ama” la sua università non c’è alcuna speranza di sviluppo duraturo. D’altro canto, è giusto e doveroso chiedere sempre all’università i massimi risultati e la massima trasparenza, con un impegno etico e organizzativo che si deve tradurre soprattutto nella capacità di far funzionare al meglio le sue regole, rendendone più semplice il contenuto e più severa l’attuazione.
3. Le proposte di intervento
3.1 Premessa
Prima di entrare nel merito delle singole proposte, crediamo sia necessario chiarire gli obiettivi di fondo del sistema universitario e introdurre un’innovazione nelle procedure e nelle prassi che possa realmente migliorare il suo funzionamento.
Chiediamo che il governo assuma l’impegno di definire, sulla base delle analisi ufficiali di istituzioni italiane e internazionali, a partire dall’OCSE, gli obiettivi del sistema da raggiungere nell’immediato, nella propria azione, e a medio termine, rispetto al 2020 (in modo da apportare gli opportuni aggiornamenti al PNR e agli impegni assunti in sede europea), per quanto riguarda: il numero di laureati, il numero di studenti assistiti dal diritto allo studio (compreso il numero dei posti letto nelle residenze universitarie), il numero dei docenti strutturati e il rapporto studenti/docenti, il grado di internazionalizzazione (corsi in lingua inglese, presenza di studenti e docenti stranieri, percentuale di studenti che compiono periodi di studio all’estero), gli investimenti pubblici e privati nella ricerca e nell’università. Tutto ciò tenendo come parametro essenziale, e prospettiva tendenziale da raggiungere, i dati relativi ai Paesi dell’UE.
Quanto a prassi e procedure, crediamo che sia necessario perseguire un chiaro avanzamento in termini di processi aperti e trasparenti, con riferimento, ad esempio, alla programmazione e alla ripartizione delle risorse (FFO e FOE), all’approvazione degli statuti e degli accordi di programma, e più in generale per tutte le scelte affidate alla discrezionalità degli organi politici e amministrativi. È inoltre auspicabile che, in particolare per quanto attiene al processo di attuazione della legge 240 sia mantenuto costantemente aperto il confronto con i soggetti interessati.
Nell’affrontare la nuova fase politica, è fondamentale che il governo si confronti con le forze politiche e parlamentari – e nello specifico con il PD – sullo stato di attuazione della L. 240. Con riferimento in particolare ai provvedimenti ancora da adottare o attesi all’esame del Parlamento, è necessario intervenire per migliorare, nella sua attuazione, l’operatività di una legge alla quale, come noto, ci siamo opposti duramente.
Chiediamo anzitutto di riaprire il pacchetto di provvedimenti in via di approvazione, a partire dal fondamentale schema di decreto legislativo sul diritto allo studio, che necessita, a nostro avviso, di significativi interventi che ne migliorino la funzionalità e l’efficacia.
3.2 Proposte specifiche di intervento
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Più istruzione e più mobilità sociale: il diritto allo studio al primo posto
Il rilancio della politica universitaria deve partire dall’emergenza del diritto allo studio. Attraverso il diritto allo studio, infatti, possiamo conseguire tre obiettivi, tutti fondamentali per il Paese:
i) aumentare il numero dei laureati, per portarlo nel più breve tempo possibile nelle medie europee, invertendo una tendenza che negli ultimi anni ha visto invece diminuire il numero delle immatricolazioni;
ii) fare dell’università “il” luogo per eccellenza della mobilità sociale, consentendo l’attuazione del principio costituzionale di assicurare ai “capaci e meritevoli, ancorché privi di mezzi”, di completare il loro percorso di studi, il che accade sempre più raramente in un Paese in cui aumentano sensibilmente le differenze sociali;
iii) spingere il sistema universitario alla coesione, che può essere assicurata accompagnando la possibilità per gli studenti di spostarsi più liberamente nelle diversi sedi universitarie ad un costante e rigoroso ‘controllo di qualità’ sui titoli, e ad una politica di equa distribuzione di ‘poli di eccellenza’ sul territorio nazionale.
Si tratta di obiettivi che, nei nostri programmi, si possono perseguire attraverso un “diritto allo studio mobile”, che consenta, appunto, agli studenti contribuire alla valutazione delle università attraverso le loro scelte (e facendo di queste uno degli elementi per la valutazione e per l’assegnazione delle risorse, ad esempio attraverso l’introduzione di un costo standard per studente): in altri termini, un diritto allo studio che garantisca parità di trattamento indipendentemente dal luogo di origine e di destinazione dello studente e che pertanto lo affranchi dalla necessità di piegare la scelta vocazionale ai limiti della capacità di spesa della famiglia, con impatto negativo tanto sulla performance nello studio che sulla piena espressione del proprio talento. Alla base di questo nuovo meccanismo è necessario costruire un sistema di diritto allo studio e di orientamento già nella scuola secondaria superiore.
Nell’immediato, crediamo sia necessario definire gli obiettivi essenziali e i pilastri del sistema:
i) raddoppiare in 6 anni il numero di studenti assistiti dal diritto allo studio, per raggiungere il 25% nel 2020;
ii) stabilire regole chiare e uniformi su tutto il territorio nazionale e assicurare a tutti gli aventi diritto l’effettiva erogazione della borsa di studio;
iii) favorire la mobilità nazionale e internazionale degli studenti;
iv) esercitare una attenta e pervasiva azione perché i percorsi di studio delle università siano rispondenti alle specifiche progettuali sui quali sono impostati a partire dal rispetto dei tempi di laurea e dalla considerazione delle opportunità professionali.
Per conseguire questi obiettivi è necessario garantire la borsa di studio a tutti gli aventi diritto su tutto il territorio nazionale e con condizioni di accesso chiare e uniformi nel Paese, anche apportando le seguenti modifiche allo schema di decreto legislativo atteso all’esame parlamentare:
i) introduzione di un unico bando nazionale, con requisiti omogenei, sul sito del MIUR, al posto della miriade di criteri e requisiti degli attuali bandi ‘di sede’, cui corrispondono percentuali di effettiva erogazione assai variabili, ovviamente nel rispetto delle competenze regionali in materia e previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni;
ii) aumento del valore dell’ISEE (indicatore della situazione economica) per accedere alle agevolazioni, in modo da ampliare la platea di beneficiari, prevedendo opportune dotazioni finanziarie: a tale scopo, è razionalità e buon senso far confluire tutte le risorse per diritto allo studio e merito (provenienti anche da dotazioni di altri ministeri o da specifici progetti come il progetto Diritto al Futuro dell’ex Ministro della Gioventù) in un unico fondo che assicuri prioritariamente l’erogazione delle risorse per tutti gli aventi diritto alle borse di studio, e i sostegni per premiare il merito disgiunto dal reddito siano erogati solo attraverso risorse aggiuntive;
iii) obbligatorietà dell’erogazione di un contributo in denaro integrativo della borsa ai partecipanti a programmi di mobilità internazionale, poiché lo status socio-economico familiare è attualmente una forte discriminante nell’accesso a questi programmi.
Per realizzare pienamente il dettato costituzionale, in realtà, occorre costruire attorno alle università un vero welfare studentesco che vada incontro a tutti i bisogni della popolazione universitaria in modo da incoraggiare le immatricolazioni ed abbattere la dispersione. Serve un cospicuo investimento nelle residenze universitarie – anche attraverso le risorse dei Fondi strutturali – per sostenere la mobilità degli studenti (solo il 3% della popolazione universitaria beneficia di posto letto e il costo dell’alloggio è quello che pesa maggiormente nel budget di spesa di uno studente), prevedendo un’azione di programmazione che parta dal monitoraggio degli effetti della legge 338/2000 sulle residenze universitarie.
Con riferimento alle tasse universitarie, si deve partire dal presupposto che l’Italia è uno dei paesi UE in cui esse sono più elevate (siamo al terzo posto): per tale ragione è sbagliato ipotizzare un loro innalzamento, così come rendere maggiormente elastico il criterio del 20% del contributo degli studenti al finanziamento ordinario. E se le risorse ordinarie diminuiscono – è il caso di questi anni – è giusto che con esse diminuiscano in valore assoluto anche le tasse, proprio perché il rapporto riferisce la contribuzione degli studenti ai costi ordinari dell’università, e non è pensabile bilanciare i minori trasferimenti statali con un aumento – anche solo proporzionale – della contribuzione studentesca. Consideriamo, a tale proposito, positivo che nel Report conclusivo dell’Eurogruppo del 29 novembre non compaiano più i criptici – e criticabili – inviti, già presenti nella fitta corrispondenza tra governo italiano e istituzioni europee, a rendere maggiormente flessibile il rapporto tra tassazione a carico degli studenti e servizi resi dagli Atenei.
Occorre piuttosto rendere la tassazione maggiormente progressiva e più omogenea territorialmente. Quanto al tema dei prestiti, molto dibattuto negli ultimi tempi, è necessario affermare che essi non possono essere finalizzati al pagamento delle tasse universitarie. Sarebbe sbagliato, in altri termini, che tale sistema costituisse una leva per l’aumento delle risorse ordinarie per l’università attraverso un incremento notevolissimo delle tasse: al fine di spostare il peso del costo dell’istruzione sulle spalle di chi ne trae effettivo beneficio occorre intervenire prioritariamente sul diritto allo studio, così da mutare la composizione sociale della popolazione universitaria, accompagnando questo sostegno con una valutazione severa dei requisiti per l’accesso e il mantenimento. Il sistema dei prestiti agevolati, invece, può essere sperimentato avendo riguardo a specifiche situazioni, quali quelle degli studenti che attualmente accedono in minor misura (o per niente) a forme di agevolazione (ad esempio gli iscritti ai master, i dottorandi e gli specializzandi) o delle fasce degli studenti che superano (entro determinati limiti) i requisiti reddituali per l’erogazione delle borse di studio, accomunate dal fatto che potrebbero vedersi costretti comunque a chiedere un sostegno finanziario a condizioni decisamente peggiori di quelle di un prestito per sostenere i costi diretti e, ancor più, indiretti della loro permanenza all’università.
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Sbloccare e rendere stabile l’accesso alle carriere
Il rilancio del sistema universitario non può prescindere dal superamento di una paralisi nel reclutamento che si trascina ormai da un triennio. A un anno dall’approvazione della legge 240, il varo della prima procedura di abilitazione nazionale, preliminare al nuovo reclutamento, non è ancora in vista.
Occorre dunque porre fine ai ritardi nell’emanazione dei provvedimenti necessari per l’avvio delle procedure di abilitazione nazionale e accelerare l’attuazione del piano straordinario per la chiamata di professori associati previsto dalla legge 240, svincolando la distribuzione dal rapporto assegni fissi/FFO dei singoli atenei (come prevede il PD in una proposta di legge, prima firmataria Ghizzoni, sottoscritta da tutte le forze politiche nella commissione Cultura della Camera).
Si deve, in sintesi, sbloccare il reclutamento e rendere continuo, stabile e certo il processo di ingresso e carriera. Da troppi anni, al contrario, i concorsi per l’ingresso di giovani talenti nelle università sono praticamente bloccati, con il risultato di un progressivo ed inesorabile assottigliamento ed invecchiamento del corpo docente e ricercatore. Analogamente, da troppo tempo a docenti e ricercatori è negata la possibilità di misurarsi per l’accesso a ruoli superiori.
Per evitare un’inaccettabile durata della fase ‘precaria’ del rapporto fino alla soglia dei quarant’anni ed oltre, occorre superare da subito l’artificiosa distinzione fra assegni di ricerca e contratti a TD di tipo a), per farli convergere, com’era negli auspici e nelle proposte del PD, verso un contratto unico di ricerca, e far diventare i TD di tipo b) una vera tenure track. E in ogni caso, poiché la valorizzazione del merito e del talento è necessariamente legata all’esistenza di momenti di crescita personale e professionale, occorre incentivare l’attivazione dei contratti a TD di tipo b), fornendo alle amministrazioni tutte le indicazioni tecniche necessarie e vigilando tuttavia rigorosamente sulla puntuale applicazione della norma che prevede il preventivo accantonamento delle risorse per l’ingresso dei ricercatori a TD di tipo b), che conseguono l’abilitazione scientifica nazionale entro il triennio del loro contratto, nei ruoli dei professori associati.
L’obiettivo deve essere quello di superare la condizione attuale, che la Legge 240, nonostante le reiterate dichiarazioni, non potrà che aggravare, con interminabili e mal retribuiti percorsi di precariato che hanno elevato a oltre 40 anni l’età dell’ingresso in ruolo. Per andare oltre il circuito vizioso della precarietà e dell’incertezza, è necessario invece ridurre l’età di accesso e guardare alle altre nazioni avanzate, che responsabilizzano i giovani e concedono loro la possibilità di fare ricerca in modo autonomo e costituire propri gruppi ad un’età nella quale, secondo questa legge, un talento italiano dovrebbe ancora barcamenarsi fra borse e contratti di vario genere. Preliminarmente a queste valutazioni occorre avere chiaro che la prospettiva verso la quale il sistema è indirizzato è insostenibile: poiché abbiamo un rapporto tra studenti e docenti superiore alla media UE, e dobbiamo raggiungere un numero ancora maggiore di studenti, occorrerebbe porsi l’obiettivo di aumentare, gradualmente e in modo programmato, il numero dei docenti strutturati, puntando al contempo a una riduzione della loro età media (la più alta al mondo, aumentata sensibilmente negli ultimi anni). Al contrario, gli attuali vincoli rischiano di condurre in pochi anni al dimezzamento dei docenti strutturati, con effetti drammatici per la qualità della ricerca, della didattica e per la trasmissione, tra studiosi e tra questi e gli studenti, del sapere.
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La ricerca, anima dell’università e centro dello sviluppo
Il ruolo della ricerca universitaria, che costituisce l’ossatura e la parte maggiore del sistema ricerca del Paese, deve essere rivalutato senza distinzione di discipline, ma con una particolare attenzione per la curiosità innovativa e l’avanzamento della conoscenza in ogni campo.
È necessario anzitutto sostenere con decisione i progetti di ricerca di interesse nazionale (PRIN), il cui finanziamento è sceso ai minimi storici in un perenne stato di incertezza su tempi e regole. Occorre agire affinché sia ripristinata un’assoluta trasparenza nei meccanismi di assegnazione dei finanziamenti, utilizzando ovunque possibile metodologie e competenze internazionali e imponendo nette separazioni di ruoli per evitare continui conflitti di interesse. Dobbiamo porre sempre maggiore attenzione alle politiche europee nella programmazione delle linee strategiche della ricerca. L’obiettivo del PD è la costituzione di un’unica agenzia nazionale di finanziamento che superi i mille rivoli della gestione frammentata fra diversi Ministeri dove la burocrazia e l’inefficienza prevengono la distribuzione meritocratica e trasparente delle risorse secondo obiettivi nazionali. Tale agenzia consentirebbe anche di abbattere gli steccati fra settori disciplinari, favorendo l’interdisciplinarietà e superando la tradizionale divisione fra ricerca di base e applicata. La regola che l’agenzia dovrebbe seguire è quella di premiare le idee e le persone meritevoli con la massima trasparenza.
Nella fase contingente, il processo di profonda revisione di tutti gli enti vigilati dal MIUR, che ha visto il suo culmine con l’approvazione dei nuovi statuti e la nomina di tutti i Presidenti degli Enti comporta l’esigenza di una rapida verifica al fine di avere la certezza che tutti gli enti siano allineati alle esigenze del Paese, oltre che correggere eventuali anomalie.
È anche necessario rivisitare il Piano Nazionale della Ricerca al fine di superare l’attuale condizione che riduce al minimo i fondi del FOE non legati ai costi fissi per le ricerche attualmente svolte dagli enti di ricerca, focalizzando tutte le risorse “libere” su 14 mega progetti bandiera decisi al MIUR senza alcuna procedura di peer review, caso probabilmente unico nei paesi dell’UE. A tale scopo è opportuno che una commissione di altissimo livello internazionale analizzi in tempi brevi il PNR e faccia le relative raccomandazioni al ministro.
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Sistema universitario, risorse e valutazione
Con riferimento alle risorse, pur con i vincoli determinati dalla crisi economica, qualche segnale di inversione di rotta è possibile, magari limitato in termini finanziari – intervenendo ad esempio sull’estensione dei meccanismi di defiscalizzazione al sostegno ordinario all’attività del sistema o di singoli Atenei – ma certamente significativo in termini politici e normativi.
Anche sul versante dei meccanismi di ripartizione delle risorse ordinarie, crediamo che il primo modo per bilanciare la loro scarsità sia rappresentato da programmazione pluriennale, assegnazione tempestiva (entro il 31 gennaio di ciascun anno), nuovi criteri trasparenti per l’assegnazione di una quota variabile di risorse il più possibile ampia. Questi ultimi devono essere improntati all’obiettivo di distinguere tra una base assicurata a ciascun ateneo, e una percentuale, sempre più ampia, assegnata in base alla valutazione, all’individuazione di un costo standard per studente, al numero di studenti fuori sede, all’internazionalizzazione e alla coesione territoriale, da realizzarsi con piani regionali del sistema universitario e con la finalità di garantire che in tutto il territorio vi sia un’adeguata presenza di strutture di qualità. A questo scopo deve intervenire anche l’operatività dei meccanismi di accreditamento, e l’introduzione di meccanismi che rendano chiaro il livello di formazione impartito dalle singole strutture universitarie (come la sperimentazione di test di verifica della preparazione degli studenti in ingresso e in uscita).
È del tutto condivisibile la prospettiva di assegnare quote crescenti del FFO in base agli esiti della valutazione. A tal proposito è bene tener presente che gran parte degli atenei utilizza il 90% e oltre del proprio FFO per il pagamento degli stipendi e per altre spese di minore entità comunque incomprimibili (bollette, manutenzione ordinaria…), anche a causa di una costante diminuzione delle risorse trasferite dallo Stato repentina e non programmata.Anche considerando altre entrate (fra le quali la contribuzione studentesca, che in ogni caso non può e non dovrà superare il 20% del FFO), è comunque evidente che l’elevazione della quota variabile dovrà essere conseguita in modo programmato e graduale. In un’ottica di superamento delle attuali limitazioni al turn-over, si può prioritariamente pensare ad una redistribuzione dei punti organico, lasciando agli atenei il 50% dell’intera quota dei punti organico resi disponibili ogni anno e assegnando il resto in base alla valutazione, fissate comunque le consistenze minime degli atenei necessarie per assicurare la presenza di adeguati sistemi di istruzione universitaria su base regionale.
La valutazione può essere quindi la chiave per innescare comportamenti virtuosi nell’ambito di una responsabile autonomia universitaria. La fase valutativa deve essere vista da atenei, dipartimenti, docenti e ricercatori come un’opportunità per il riconoscimento e la valorizzazione del proprio lavoro e delle proprie capacità. Per conseguire questo risultato occorre abbandonare approcci formalistici, punitivi ed iper-burocratici ed individuare, anche in base alle migliori esperienze internazionali, strumenti di valutazione dei risultati che partano dalla definizione di obiettivi condivisi, stabili nel tempo e, fatta salva la prima necessaria fase di avvio, resi noti in anticipo. È importante che l’ANVUR consolidi la propria attività, in piena indipendenza dalle funzioni ministeriali, dedicando attenzione prioritaria alle funzioni di valutazione rispetto a quelle di supporto delle attività del ministero e di normativa tecnica. In linea di principio occorre che l’ANVUR dedichi l’attenzione prevalente alla valutazione delle strutture universitarie demandando invece agli atenei la valutazione di singole iniziative e delle performance individuali.
Riguardo la possibilità di fonti di finanziamento alternative, la European University Association (EUA) ha recentemente ribadito che incrementare e diversificare le fonti di reddito costituisce un fattore di successo cui le università europee devono saper mirare, aggiungendo che è necessario diffondere negli atenei la piena consapevolezza dei costi delle attività sviluppate. In questo senso occorre promuovere la capacità degli atenei italiani di attivare fonti multiple di reddito mettendo a frutto le proprie peculiarità in termini di composizione del corpo accademico, interazione con i territori e presenza di infrastrutture di ricerca e di servizio. Non si tratta di imporre ricette centralistiche, ma di incoraggiare la capacità degli atenei di attivare fonti di reddito autonome.
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Autonomia universitaria
È necessario costruire finalmente un assetto efficiente e responsabile rispetto al sistema paese della politica autonomistica. Da quando questa è stata inaugurata, più di vent’anni fa, la sua attuazione è stata caratterizzata da due patologie. Da una parte le università hanno usato in modo poco responsabile l’autonomia gestionale, didattica, organizzativa e finanziaria che era stata loro attribuita. Dall’altra parte il centro del sistema (il ministero) non si è dimostrato capace di guidare a distanza il sistema universitario, ma ha indugiato nelle tradizionali pratiche di regolazione diretta del comportamento universitario e di controllo dei processi piuttosto che di verifica dei risultati (a onor del vero, spesso per porre rimedio agli effetti di un uso inadeguato dell’autonomia da parte delle università). È giunta l’ora, pertanto, di ridisegnare i ruoli che spettano, in una logica virtuosa dell’autonomia, alle singole università e al Ministero. A questo spetta il compito di indirizzare il sistema, attraverso la definizione di obbiettivi sistemici da raggiungere (nella didattica, nella ricerca e nella terza missione) all’interno di un piano almeno decennale di sviluppo del sistema universitario. La valutazione è al centro di questa strategia, ma deve essere capace di esaltare le diverse eccellenze dell’azione delle università (non solo, quindi nella ricerca di base, ma anche nella ricerca applicata, nel sostegno allo sviluppo socio-economico dei territori, nella didattica di base, nei dottorati). Alle università deve essere garantita la possibilità di disegnare – cosa consentita anche della L. 240 – gli assetti organizzativi più coerenti con la missione che esse devono necessariamente scegliersi. Il principio generale che deve informare questa ridefinizione della politica autonomistica deve essere quello di perseguire l’eccellenza nella differenziazione.
Dunque, a questi fini, nella relazione tra organi di governo nazionali e atenei occorre aprire spazi di autonomia, che favoriscano la differenziazione delle strategie, pur non rinunciando al contrasto di comportamenti opportunistici e degenerativi. Abbandonare l’approccio centralistico e iper-burocratico richiede anzitutto un ripensamento delle funzioni e delle competenze del Ministero dell’Università che deve passare dalla logica dell’uniformità e della standardizzazione alla logica delle promozione e della valutazione del pluralismo. È in questo senso centrale impostare azioni per potenziare gli uffici ministeriali addetti alla programmazione del sistema universitario.
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Didattica, accreditamento e dottorati di ricerca
Per quanto riguarda la didattica, il Ministero dovrebbe monitorare il mutamento della governance interna degli atenei con l’abolizione delle facoltà, senza imposizioni burocratiche, anche in vista della valutazione e dell’accreditamento dei corsi di studio. Rischiano infatti di indebolirsi e di essere deresponsabilizzate la loro organizzazione e gestione, come la loro corretta progettazione culturale, soprattutto negli aspetti multidisciplinari.
Crediamo si debba anticipare il più possibile il momento nel quale lo studente esce dalla “protezione” del suo territorio e dell’ateneo, per dare a tutti in tempo utile la possibilità di comprendere il valore degli studi compiuti e il livello qualitativo del corso di laurea che si è frequentato e per agire come forza di pressione per il continuo miglioramento. A quest’obiettivo possono contribuire la fase di valutazione degli atenei e specifici meccanismi di incentivo/disincentivo, anche collegati ai compensi, che premino i docenti più attivi e viceversa penalizzino quelli meno presenti nel sostegno alle attività didattiche e di ricerca. Alcune proposte specifiche:
i) con riferimento al valore legale, in particolare, una severa analisi in sede di accreditamento delle strutture dotate della facoltà di attribuire titoli con valore legale;
ii) che sia mantenuta la terzietà della valutazione, e che questa tenga massimamente conto delle percentuali adeguate di personale strutturato e a tempo pieno;
iii) a proposito del valore legale del titolo di studio, occorre prevenirne le distorsioni, ad esempio attraverso l’abolizione del valore legale del voto di laurea (le P.A. dovrebbero condizionare le procedure selettive concorsuali al solo titolo di studio) o l’eliminazione della connessione tra acquisizione di un titolo di studio nel corso dell’attività professionale nelle P.A. e progressioni interne di carriera, le quali invece dovrebbero dipendere esclusivamente dal livello di competenze effettivamente acquisite;
iv) chiediamo una specifica analisi nei confronti delle università telematiche, fenomeno che sta assumendo tratti sempre più preoccupanti in termini di qualità e correttezza delle attività svolte e del livello di formazione impartita;
v) una innovazione ineludibile è rappresentata dal test unico nazionale per l’accesso alle facoltà di medicina.
Per tornare al tema del diritto allo studio, riteniamo che in una concezione avanzata ed evoluta esso debba consistere non solo nel dotare gli studenti delle risorse necessarie per svolgere gli studi, ma in un impegno a 360 gradi affinché l’offerta formativa erogata dagli atenei sia costruita intorno alle esigenze e ai bisogni formativi degli studenti e non esclusivamente sulla base di equilibri e accordi accademici. Occorre progettare con cura i corsi di studio e garantire la possibilità per gli studenti di ottenere quanto promesso in fase d’iscrizione. Nel concreto, questo significa che i percorsi formativi devono essere percorribili nel tempo previsto (superando con decisione i casi – purtroppo ancora diffusi – di corsi di laurea con percentuali infime di laureati in corso), devono tenere conto dell’occupabilità dei laureati formati, devono adottare piani degli studi e metodologie didattiche che favoriscono l’apprendimento da parte dei discenti.
La formazione post-laurea e il dottorato di ricerca sono temi centrali, e per questa ragione ad essi – così come all’apertura e all’internazionalizzazione del sistema – dedicheremo un focus specifico. Quel che è certo è che l’occasione offerta dalla definizione della nuova normativa sui dottorati e sulle scuole di dottorato in via di emanazione deve essere colta per stabilire una maggiore sintonia con la concezione degli studi dottorali prevalente in sede europea, anche attraverso la fissazione di fissare regole certe per l’attivazione di corsi di dottorato. La possibilità per gli atenei di istituire i corsi di dottorato deve essere vincolata alla loro effettiva capacità di offrire standard di ricerca elevati e percorsi formativi di qualità ai giovani ricercatori. Il dottorato di ricerca, inoltre, deve essere valorizzato e reso sempre più spendibile nel mercato del lavoro, sia nella pubblica amministrazione che nel mondo delle imprese, anche attraverso meccanismi di incentivazione all’assunzione di dottori di ricerca (come sostenevano proposte emendative del PD alla L. 240). È necessario disporre interventi normativi e politiche economiche di sviluppo che garantiscano allo stesso tempo un’adeguata formazione per i dottorandi e una migliore sinergia delle accademie con il mondo che le circonda. Grande attenzione va poi dedicata alla possibilità per i laureati di accedere al più alto livello di formazione: l’accesso e la frequenza dei corsi deve essere garantita a tutti i meritevoli privi di mezzi economici propri. Ciò implica la necessità di rivedere il livello della tassazione di ingresso e il progressivo superamento dei dottorati senza borsa.
Un esempio è il sistema proposto dall’Osservatorio regionale per l’Università della Regione Piemonte, adottato nel 2011/12 dal Politecnico di Torino, per cui ad ogni incremento di 1.000 euro di ISEE corrisponde una diversa fascia contributiva. Si ipotizza un importo per la prima fascia pari a 300 euro ed un incremento della tassa da una fascia all’altra di 30 euro, di conseguenza chi rientra nell’ultima fascia (con oltre 80.500 di ISEE) pagherebbe 2.130 euro.
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