Trent’anni senza Enrico

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Premessa: esistono personaggi, nella storia del nostro Paese, anche nella politica del nostro Paese, la cui grandezza travalica quelli che sono gli “steccati ideologici”, per cui “tirarli per la giacchetta” o “metterci una bandierina” a scopo propagandistico o per fini elettorali risulta degradante e inopportuno, chiunque lo faccia, né questo articolo ha lo scopo di farlo.

Il 7 giugno 1984, in Piazza della Frutta, nel centro storico di Padova, si stava tenendo un comizio del Partito Comunista Italiano, in vista delle elezioni europee in programma dieci giorni dopo. La piazza era gremita, tutti erano lì per ascoltare l’uomo che parlava dal palco col suo inconfondibile accento sardo.
Poi, ad un certo punto, qualcosa va storto: l’oratore fatica a parlare, si porta il fazzoletto alla bocca, si blocca ripetutamente. Il pubblico si accorge delle sue difficoltà e lo esorta a fermarsi, ma lui continua, fino alla fine.
“Lavorate tutti, casa per casa, azienda per azienda, strada per strada, dialogando con i cittadini”, dice. Poi solleva il viso, guarda la piazza, e, con fatica, sorride. Per l’ultima volta.
Poco più tardi, entra in coma, viene portato in ospedale, dove si scopre che aveva avuto un ictus: le sue condizioni sono drammatiche. L’11 giugno 1984 si spegne. Viene riportato a Roma “come un amico fraterno, come un figlio, come un compagno di lotta” dal Presidente Pertini, sull’aereo presidenziale, nonostante le proteste del PSI craxiano.
Il 13 giugno si tengono i funerali in piazza San Giovanni: i più partecipati della storia d’Italia, fino a quelli di Papa Giovanni Paolo II, agli inizi del nostro secolo.
Il 17 giugno, alle elezioni europee, sull’onda emotiva di quel dramma, il Partito Comunista Italiano era il primo partito, operando lo storico sorpasso sulla DC, mai più ripetuto.

Quell’uomo era il segretario del Partito Comunista Italiano e si chiamava Enrico Berlinguer.

Enrico Berlinguer è stato un personaggio fondamentale della Prima Repubblica e del decennio più duro, gli anni ’70, in particolare. Ed è stato anche un personaggio particolare, assolutamente unico: era l’anti-divo per eccellenza, mai al di sopra delle righe, assolutamente mai volgare. Fu per più di un decennio l’esponente principale del suo partito, ma non lo si sentiva mai dire “io…”, sempre “noi comunisti…”, diceva di non voler morire segretario come Togliatti e Longo, ma un ictus a soli 62 anni gli riservò lo stesso destino dei suoi predecessori.
Dicevano fosse triste, lo chiamavano “il sardo muto”, e a lui dava fastidio, come ebbe a dire in un’intervista a Giovanni Minoli, a Mixer, perché non era vero fosse un uomo triste, e il suo sorriso è lì a ricordarcelo, ancora oggi.

La politica di Berlinguer era qualcosa di estremamente lontano da quella a cui siamo abituati oggi: Berlinguer centellinava le apparizioni televisive; non twittava né lanciava hashtag, (sì, ovvio, i social network non esistevano), 140 caratteri sarebbero stati troppo pochi per lui, che sosteneva la necessità di “reinvestire la politica di pensieri lunghi”. Berlinguer non lanciava invettive, perché “gli anatemi sono espressioni di fanatismo e v’è troppo fanatismo nel mondo” (mi pare scontato aggiungere che non regalava nemmeno dentiere).

Oggi Berlinguer viene ricordato quasi esclusivamente per la “Questione Morale”, espressione usata dalla politica odierna nei modi più disparati e assolutamente impropri, ma fu anche il segretario che guidò il PCI al suo massimo storico, alle elezioni politiche del 1976, con il 34,4% (più di 12 milioni e 600mila voti), fu il segretario del “Compromesso Storico” con la DC di Moro, e fu il segretario che mantenne il PCI fermo nella scelta di non piegarsi a trattare coi terroristi, come volevano fare parte della DC e del PSI, quando lo stesso Moro fu rapito.
Ma, a mio parere, il contributo più importante di Enrico Berlinguer fu il suo impegno costante per inserire nel sistema di valori del PCI quello della democrazia: già nel ’68, quando era vice-segretario ed erede designato di Longo, si schierò fermamente con il tentativo di un “socialismo dal volto umano” attuato da Dubcek in Cecoslovacchia, opponendosi (e il PCI fu l’unico dei partiti comunisti a farlo) all’invasione sovietica che stroncò sul nascere la “Primavera di Praga”, fu il primo comunista a sostenere che “l’Unione Sovietica ha esaurito la sua spinta propulsiva” e a difendere la scelta italiana di restare nella NATO.

Il Segretario di Stato Henry Kissinger (che, invece, con la democrazia non è che abbia mai avuto un bel rapporto: chiedere ai cileni per conferma…) lo definì “il comunista più pericoloso”, perché non rispondeva ai soliti canoni del comunista, era un uomo di cultura che si era formato sì su Marx, ma anche su Voltaire e Bakunin, non poteva essere additato a “mangiabambini”, non sarebbe stato credibile in quel ruolo stereotipato.
Ma se a Washington non era amato, a Mosca probabilmente era proprio odiato: nel 1973, a Sofia, in Bulgaria, fu persino vittima di un attentato da cui uscì miracolosamente illeso.

Quella di Berlinguer è una politica lontana nel tempo, ma il suo pensiero è quanto di più moderno possa esistere. Chiariamoci, non si potrebbe fare un “copia-incolla” e proporlo ai giorni nostri, i tempi sono cambiati, le situazioni sono cambiate, gli attori sono cambiati, ma i valori, gli obiettivi che la sua politica si poneva valgono, pressoché immutati, ancora oggi. Qualche esempio? In primis, proprio la “Questione Morale”, che non è il giustizialismo manettaro che crede qualcuno. Già nel ’74 ne parlava, ma il tema divenne centrale dopo la famosissima intervista rilasciata a Scalfari “Dove va il PCI?” del 1981, in cui sosteneva che “i partiti oggi sono macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimento e passione civile, zero”. Parole quasi profetizzanti, alla luce degli avvenimenti di questi giorni (ma sarebbe da dire “di questi anni”), se si pensa che sono state pronunciate più di tre decenni fa.
Altrettanto si può dire del “Compromesso Storico”,  tanto osteggiato da militanti e dirigenti del partito al tempo, ma che altro non fu che il primo tentativo, tristemente finito con la vita di Aldo Moro, quel 9 maggio ’78 in via Caetani, di superare la conventio ad excludendum che impediva al PCI di diventare una forza di governo alternativa all’egemonia democristiana.

Quella battuta da Enrico Berlinguer era una via molto impervia, un sentiero stretto, per rimanere sempre fedele ai suoi ideali, ma con una sana dose di pragmatismo che non è mai mancata nella sua azione politica.
Studiando per un esame di storia contemporanea, lessi una frase che mi scandalizzò. Secondo l’autore del testo, Craxi aveva saputo interpretare meglio di Berlinguer l’Italia degli anni ’80. Ripensandoci, tempo dopo, mi resi conto che era parzialmente vero: parzialmente nel senso che Craxi ha saputo adattarsi meglio a quelli che erano i primi anni ’80, perché Berlinguer non si adattava, il PCI del segretario sassarese ha sempre cercato di cambiare la società, anche quando poteva essere svantaggioso in termini elettorali.

Ma il segretario Enrico Berlinguer è morto da trent’anni, e questo non può cambiare. Andare avanti è indispensabile, ma anche guardare indietro lo è. Perché non c’è futuro, se si dimenticano le proprie radici. Ed Enrico Berlinguer è, senza alcun dubbio, la base più solida che la sinistra italiana abbia avuto, per tornare finalmente là, “casa per casa, azienda per azienda, strada per strada, dialogando con i cittadini”.

Ciao, compagno Enrico.

Dennis Turrin



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