25 Aprile – #ilcoraggiodi
“…l’Italia non è purtroppo quale noi la vedevamo nelle nostre speranze (…) ed il fascismo come spirito, se non come organizzazione, non è scomparso. È un po’ dappertutto: (…) soprattutto nella forma mentale impressa agli italiani, nell’intolleranza, nella vanità, nella vacuità dei discorsi e dei ragionamenti”.
Così scriveva Egidio Reale, parlamentare del Partito Repubblicano, all’amico Salvemini, nel 1946. E non deve stupire più di tanto questa affermazione, perché se “fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”, così sconfitti i fascisti, bisognava sconfiggere il fascismo. L’abbattimento del regime e la successiva liberazione dalla dominazione tedesca non comportano ipso facto la trasformazione della mentalità di un intero Paese. E non potrebbe essere altrimenti, dopo vent’anni di un regime che ha permeato la vita della popolazione, influenzadone gli usi, i costumi e persino la lingua.
Ma se nel 1946 poteva essere comprensibile che l’Italia non fosse ancora completamente “bonificata” dalle scorie del fascismo, fa male accorgersi come le parole di Reale suonino ancora, a settant’anni di distanza, tristemente attuali. Sì, perché “il fascismo come spirito” non è scomparso, non lo è affatto.
Si badi bene: il fascismo come ideologia politica, oggi, non è una minaccia concreta per la democrazia italiana e, anzi, con la XII disposizione transitoria e finale della Costituzione, quella che vieta la ricostituzione del partito fascista sotto qualsiasi forma, viene bandito dal “gioco politico” della Repubblica Italiana. Si potrebbe dibattere per ore sull’effettiva applicazione di tale disposizione, vista la galassia di gruppi e gruppuscoli che si dichiarano fieri eredi del credo fascista, ma non è su questo che voglio concentrare l’attenzione.
Il fatto che esistano formazioni politiche nostalgiche (e che alcune di esse possano anche contare su un solido, seppur modesto, bagaglio di voti) deve far riflettere, certo, ma per capirne le cause bisogna andare a monte: per dirla con le parole di Reale, da analizzare è la “forma mentale” degli italiani, o di una parte di essi, ancora largamente impregnata di fascismo.
Ma cosa significa “mentalità fascista”, oggi? Con questa espressione intendo riferirmi, appunto, “all’intolleranza, alla vanità, alla vacuità dei discorsi e dei ragionamenti”, per rifarsi nuovamente alla citazione iniziale, ovvero a tutte quelle forme di prevaricazione dell’uno sull’altro, la presunta superiorità ontologica di un determinato gruppo, l’idea che esista una “purezza” da preservare, tutte quelle situazioni, in sostanza, in cui ci si trova a distinguere tra “noi-e-loro”, qualunque cosa significhino “noi” e “loro”, cercando di schematizzare in modo semplificatorio situazioni e problematiche che sono, in realtà, di grande complessità.
E se oggi il fascismo è questo, è fin troppo facile vedere come in Italia esso sia vivo, anzi, più vivo oggi che mai. È vivo nella classe politica, certo, ma è vivo soprattutto nella società, di cui inevitabilmente la classe politica è sempre uno specchio fedele.
È fascista, secondo questa definizione, chi vuole usare le ruspe nei campi nomadi (noi, società sana, e loro, i rom); è fascista, secondo questa definizione, chi vuole bombardare le navi dei migranti o chi gioisce (e quanti se ne sono visti) della morte di quasi mille persone (noi, gli italiani, e loro, gli stranieri, ma solo quelli poveri e neri, ovviamente); è fascista, secondo questa definizione, chi si augura la distruzione di Montecitorio e “dei politici”, invece che una migliore qualità della democrazia (noi, i cittadini onesti che però magari preferiamo pagare qualcosina in nero, sa, le tasse sono alte, lo Stato ci ruba i soldi, e loro, i politici, ladri, corrotti, mafiosi, tutti uguali, tutti schifosi); è fascista, secondo questa definizione (ma forse non solo secondo questa definizione), chi alla Diaz ci rientrerebbe altre mille e mille volte (noi, l’ordine, il Bene, e loro, le “zecche”, il Male).
E allora cosa si fa? Come si sconfigge questo cancro che ci infesta da quasi un secolo? Con una battaglia dura. No, non una battaglia con le armi, con una battaglia politica, ma ancor prima con una battaglia culturale.
Parlando proprio di fascismo e antifascismo, Gaetano Arfé, direttore dell’Avanti! e di Mondoperaio, storico ed esponente di spicco del Partito Socialista, in un intervento sul settimanale comunista Rinascita ebbe a scrivere:
“Credo che sia venuto il momento di rivalutare (…) accanto alla tolleranza l’intransigenza: riconoscere a tutti, anche ai cialtroni, il diritto alla parola, ma astenersi dall’offrir loro delle tribune, e soprattutto rivendicare ed esercitare il diritto di dire che si tratta di cialtronerie”.
Combattere una battaglia culturale significa questo: non si tratta di inculcare dei valori o un’identità politica, si tratta di non dare più spazio di quanto è necessario ai cialtroni, come li chiama Arfé, e soprattutto di controbattere colpo su colpo alle infamie di questo tipo, significa non voltarsi dall’altra parte, significa, più di ogni cosa, interessarsi: “I Care”, diceva Don Milani, in opposizione al “Me ne frego!” fascista. “Avere a cuore”, avere a cuore la propria famiglia, il prossimo, il proprio Paese, anche il proprio partito, per chi ne ha uno, insomma, quello che volete, ma non “fregarsene”, non dire “non mi riguarda”, non dire “noi-e-loro”, ma solo “Noi”.
Oggi è il 25 aprile, la data più importante, insieme al 2 giugno, per la nostra Repubblica, l’una il concepimento e l’altra la data di nascita, per così dire, della democrazia italiana. Sono passati settant’anni da quando Corrado annunciava alla radio che i tedeschi si sono arresi e che la guerra è finita, ma nonostante sette decadi e la scomparsa di quasi tutti i testimoni di quegli avvenimenti, l’antifascismo e la Resistenza restano, anzi, devono restare, i pilastri portanti della nostra democrazia, una conditio sine qua non per chiunque si avvicini alla politica, perché è su quei monti, i monti sui cui salirono i partigiani, come affermò Piero Calamandrei, che nacque la Costituzione repubblicana.
Tocca a noi, oggi, continuare, con altre armi, la loro lotta “per una società pacifica e democratica, ragionevolmente giusta, se non proprio giusta in senso assoluto, ché di queste non ce ne sono”.
Buon 25 aprile.
Ora e sempre, Resistenza.
Dennis Turrin