Primarie a Verona

Care democratiche e cari democratici,

il 4 dicembre 2011 a Verona si vota per scegliere il candidato sindaco della coalizione di centrosinistra che affronterà le elezioni amministrative della prossima primavera.

Il Partito Democratico ha scelto e vota Michele Bertucco quale candidato a sindaco della città.

Michele Bertuccoè la persona giusta per il cambiamento. Da molti anni è impegnato nell’associazionismo per tutelare il territorio e la salute dei cittadini, rappresenta l’unità della coalizione di centrosinistra e la società civile dalla quale proviene.Per questo, alle primarie del 4 dicembre scegli Bertucco.


Non tutto sarà come vuole il PD. Non sarà il governo del PD. Ma l’Italia ha ripreso il suo cammino.

Oggi il governo del presidente Mario Monti ottiene la fiducia anche della Camera dei deputati. Non è il governo del Pd. Non è il governo delle larghe intese. E nel discorso programmatico del presidente Monti ci sono anche interventi che possono non piacere al Pd. Ma un fatto è incontrovertibile. Si è chiusa una pagina brutta della storia italiana. E la rabbia manifestata ieri da Berlusconi e dalla Lega Nord sono la testimonianza più chiara e lampante di questa realtà. Il cammino dell’Italia è ripreso. Non sarà facile. La crisi internazionale è drammatica. I ritardi e gli errori accumulati dal governo della destra hanno provocato guasti che non sarà semplice rimediare. Ma il paese ha voltato pagina. Sarà una prova anche per il Pd.
Da Europa. Articolo di Anna Finocchiaro, presidente del gruppo parlamentare del Pd al Senato. “Siamo stati ieri protagonisti di un evento politico e istituzionale il cui solo precedente, nella storia repubblicana, è il governo Dini del 1995, “del Presidente”, interamente composto da personalità non politiche, non parlamentari. Un evento che da oltre un anno auspicavamo, alla cui produzione abbiamo da tempo lavorato nelle sedi politiche e parlamentari. Se oggi siamo tutti impegnati per questo fine, il primo ringraziamento va al Presidente Napolitano, alla sua paziente saggezza, alla sua lucida determinazione, alla sua lungimiranza. La richiesta pressante del Pd per la composizione tecnica del governo è stata connessa all`impegno ed alla convinzione con i quali sosterremo questo esecutivo. Non si poteva consentire, infatti, che pesassero le conseguenze della vicenda politica appena trascorsa, con le dimissioni del presidente Berlusconi, segnata da forti tensioni tra le forze politiche. E non si poteva consentire che i riflessi di quelle tensioni, il loro perdurare o ridestarsi, inquinassero lo sforzo autentico che tutti stiamo facendo, assumendo una comune responsabilità nell`interesse dell`Italia. E’ indubitabile che sia estranea all`esperienza politica del bipolarismo italiano questa chiave che sperimentiamo per affrontare ciò che ci attende e uscire dalla seria crisi che grava sul paese. E che non sia facile, per partiti che sino a qualche giorno fa si sfidavano sul terreno politico e parlamentare, sostenere la stessa esperienza di governo. Come fare, dunque? Il primo passo è stato quello di approvare ieri, con la fiducia, la relazione programmatica e che ha trovato nella stessa composizione del governo, nella qualità, autorevolezza, competenza e responsabilità civica di ciascuno dei ministri nominati ulteriore, forte, ragione di consenso. Ma il voto di ieri è, appunto, un inizio. In seguito, occorrerà guardare avanti e cercare, ogni volta, e con testarda ricerca, di stringere con decisione sull`oggettività di ciascuna questione, di esercitare il massimo di laicità riformista. La Costituzione, che tutti riconosciamo, è il luogo entro i cui limiti dobbiamo inscrivere le nostre decisioni. E dunque, non ci potrà essere riforma fiscale senza principio redistributivo e progressivo, né sviluppo del paese fuori da un’idea di coesione nazionale, né ridisegno del meccanismo di accesso alle opportunità economiche che produca diseguaglianza, né lavoro senza dignità. Noi siamo l’Europa, ha detto Monti nell`aula del senato. Io qualche giorno fa, sempre a palazzo Madama, ho detto «noi siamo europei».
Dall`Europa ci sono venuti forza e soccorso. Se ne soffriamo i limiti, rintracciamo anche in noi stessi la responsabilità. Con il governo Monti sappiamo che riprenderemo la strada dell’integrazione e del nostro impegno, senza esitazioni e senza complessi. E condividiamo pienamente questa scelta. Finora i protagonisti sono stati il presidente della repubblica e il presidente Monti. Ora rientra in campo il parlamento. Questa è una repubblica parlamentare che ha subito, negli ultimi anni, un oltraggio che oggi tutti avvertiamo e che trova nella legge elettorale vigente le sue ragioni. La politica ha sopravanzato la Costituzione, la prassi ha tramutato la forma. Ma il “senso” del parlamentarismo, la consapevolezza profonda del dovere di rappresentanza, la forza del parlamento resistono e possono essere intatti. Perché è il momento e perché è il nostro dovere. Io credo che questo parlamento debba chiedere al nuovo premier Monti un impegno: quello di rispettare il parlamento, di considerarlo il suo primo, potente, alleato. Restaurare la forza e l`autorevolezza delle camere è il consistente contributo che noi daremo alla forza delle decisioni del governo, alla forza dell’Italia. Credo che queste considerazioni facciano giustizia di molte superficialità diffuse che hanno creduto di identificare il governo Monti con un algido esecutivo di “migliori”, che ha fatto fuori la politica e sospeso la democrazia. Io penso esattamente il contrario. E penso anche che, se saremo all`altezza, dopo niente sarà come prima. Né i partiti, né le relazioni politiche, né il parlamento, né l`Italia. Una sfida entusiasmante, di quelle che solo un grande paese e vere classi dirigenti sanno cogliere. Questo, per nostra parte, e per nostra responsabilità, come Partito Democratico, offriamo agli italiani, con il consenso, la lealtà e la collaborazione del nostro gruppo al governo Monti”.


L’agenda dei progressisti esige coraggio e visione

Un interessante articolo di Giancarlo Bosetti (direttore dell’Associazione Reset – Dialogues on Civilizations) apparso sul numero 3 di novembre 2011 della rivista “TamTam Democratico” in merito al tema dell’immigrazione

A una domanda sulle difficoltà degli italiani a darsi un modello di comportamento nei confronti dell’immigrazione e dell’integrazione dei nuovi arrivati (sono cinque milioni adesso e diventeranno probabilmente dieci nel 2050, su un totale che resterà di sessanta) si potrebbe rispondere nel modo più facile: c’è una maggioranza che comprende un partito dalla fisionomia xenofoba e che non vuole fare chiarezza sul futuro italiano e sul futuro di niente perché non vuole e non può farlo nelle condizioni in cui è; e c’è una opposizione che
potrebbe vincere le prossime elezioni, ma che ha paura di perdere voti se fa troppa chiarezza sul tema. Questa situazione inquina ogni discussione sull’argomento. Ed è un
male, grave, perché la questione è centrale per definire il destino della società italiana oggi: il suo Pil, la natura della sua economia, la qualità della vita nelle sue città, quel che
sarà della scuola, la sua stessa coesione civile. È in corso un ricambio senza precedenti della popolazione che innesta un flusso in entrata, eterogeneo e difficile da governare, su un corpo di residenti sempre più vecchio. La crisi demografica è drammatica e di lunga durata. È sorprendente, ma non tanto, che il soggetto che lo dice con maggiore forza sia la Conferenza dei vescovi italiani nel 1 suo documentato rapporto , che invoca una società più «generativa» e una politica concretamente più incoraggiante per il «fare famiglia». La Cei ha le sue ragioni confessionali per perorare la causa delle nascite, ma è certo che un
aumento del tasso di natalità renderebbe meno drammatico il flusso di immigrati in entrata e dovrebbe essere desiderato da destra e da sinistra, anche se non potrà mai rovesciare la 2 tendenza generale , perché gli immigrati arrivano in corrispondenza di un reale vuoto, di un fabbisogno «di sistema» degli italiani per far fronte all’assistenza agli anziani,
a una molteplicità di servizi e di produzioni scoperte: alimentazione, sanità, agricoltura, costruzioni. Fanno «notizia» gli sbarchi drammatici di clandestini, centinaia e migliaia, ma fanno molto di più «quantità» i regolari che arrivano con visto turistico (o passaporto europeo, Schengen, i rumeni sono oggi circa 900mila), a centinaia di migliaia, milioni, e che stanno rimodellando l’Italia. L’idea di sbarrare la strada all’accesso alla cittadinanza – che è la politica attuale, in assenza di una indispensabile urgente nuova legge – corrisponde a un progetto politico o cieco o folle, quello di immaginare che una sezione enorme della popolazione italiana, oggi il 7,5%, destinata a diventare fra 30 anni più del 15%, rimanga sul fondo del barile a reggere con il suo lavoro, i suoi contributi al fisco e all’INPS, il peso sovrastante, rimanendo priva di diritti politici. È evidente che le porte della cittadinanza si dovranno aprire e che è indispensabile garantire un percorso di accesso dopo un ragionevole periodo di residenza, attività, apprendimento della lingua in misura sufficiente a condividere la vita civile e le sue regole. E che ci vuole una legge che garantisca la cittadinanza a chi nasce in Italia.
Si discuta rapidamente dei tempi necessari per maturare il diritto al passaporto italiano: cinque anni per gli extraeuropei come nella proposta Sarubbi-Granata; si discuta delle
condizioni, che hanno da essere serie, ma non discriminatorie. Non si pretenda per esempio una conoscenza della lingua o della Costituzione fuori portata anche per buona parte dei nostri connazionali. Ma se non manca, come si vede dal testo di cui sopra (vedi proposta alla Camera N. 2270 del 2009), la capacità di concepire una legge del genere (e alle spalle ci sono il progetto di Fini per il diritto di voto agli immigrati nelle amministrative e un ddl Amato presentato dal governo Prodi), quel che è del tutto assente è la propulsione politica e di opinione capace di portarla in primo piano. Perché? È questa la domanda vera da discutere qui: perché il discorso pubblico italiano non riesce ad affrontare il tema? Della maggioranza abbiamo già detto: c’è la Lega, che sa bene quanto gli immigrati siano indispensabili all’economia veneta o lombarda, e che prospera (si fa per dire) sia sul loro
arrivo sia facendo loro la «faccia feroce». E sempre del resto la destra tende, in modo più o meno radicale, a rappresentare l’identità e l’indigenismo (da Sarkozy all’inseguimento di
Marine Le Pen, fino alla governatrice repubblicana dell’Arizona, Jan Brewer, che criminalizza ogni contatto con i clandestini).
E perché la sinistra in Italia (e in tutta Europa non è tanto diverso) non riesce ad alzare la voce su questo argomento? La risposta sta nella enorme difficoltà di una transizione che
stiamo attraversando in molti paesi europei, sotto la pressione di minoranze ora così grandi da modificare la tradizionale omogeneità linguistica, culturale, confessionale. Un processo turbolento, in una fase di crisi economica, deindustrializzazione, deficit dei sistemi di welfare, che rimette in discussione un equilibrio che si basava, senza dichiararlo perché era nella «natura» delle cose, sul perimetro nazionale della crescita.
È sorprendente come nelle discussioni sollevate dalla disinvolta condotta transnazionale della Fiat di Marchionne (gli investimenti in Polonia o in Serbia incentivati da minori
costi) sia emersa per i sindacati e, di riflesso, per la sinistra una sostanziale irrilevanza della dimensione internazionale o per lo meno europea del problema. Sono davvero impossibili da immaginare azioni di solidarietà sociale al di fuori della propria città e provincia? È giunto il momento di aprire un cantiere di lavoro culturale e politico innovativo. Se alcune formazioni di sinistra possono vivacchiare raccogliendo la protesta e la rabbia, contro il governo, contro le iniquità e le sofferenze del presente, un grande partito riformista non si può contentare di questo, deve alzare lo sguardo sul futuro, indirizzare il malcontento verso un disegno di governo del cambiamento, di gestione sapiente di una complessa transizione, che riguarda il posto dell’Italia nel Mediterraneo, in Europa e nel mondo. Due ingredienti fondamentali, tra i molti, di questa costruzione saranno la rimessa in onore e in evidenza della politica estera e, sul piano delle idee e della mentalità diffusa,
la promozione del «pluralismo culturale». Il primo ingrediente: un partito ha la consistenza di protagonista della vita pubblica se manifesta e incrementa attive simpatie internazionali e non solo in Europa. Non è sufficiente la appartenenza al Partito socialista europeo o a quel che resta dell’Internazionale socialista. Non basta che di estero si occupi qualche parlamentare. I temi del futuro del Nord Africa, dei nuovi equilibri in Medio Oriente, della solidarietà europea nella difesa dei diritti e altro ancora, devono diventare centri focali di un’azione continua, di ricerca, discussione, comunicazione. L’interesse per le campagne
elettorali dei partner europei è forte nelle rispettive opinioni pubbliche, ma molto di più si può fare per integrare reti di lavoro politico. E l’interesse costante si deve estendere  attraverso iniziative dirette dei partiti con tutti i paesi del Sud del Mediterraneo.
Proclamarsi socialdemocratici o socialisti non significa nulla se non attivano intensi collegamenti internazionali. Qualcuno si è accorto che alle elezioni tunisine c’erano tre
liste che occupano uno spazio simile a quello del Pd o dei socialisti francesi?
Il secondo ingrediente: il pluralismo culturale, vale a dire non il pluralismo politico tipico delle società liberali, ma ilpluralismo «profondo», delle differenze culturali non è attivo
«naturalmente» in nessuna società, neanche negli Stati Uniti, dove il concetto stesso si è affacciato a metà del Novecento e lo si deve a un autore Horace M.Kallen, tradotto in politica da John Kennedy e Lindon Johnson, che aprirono le porte a una nuova enorme ondata di immigrazione. La discussione italiana andrebbe, per cominciare, tratta fuori da un certo primitivismo che affligge non solo gli elettori della Lega. I temi delle relazioni interculturali, della doppia identità degli emigrati di seconda generazione, della necessità di ammettere che un cittadino italiano possa essere marocchino-italiano o albanese-italiano, con o senza il trattino all’americana, la stessa questione del multiculturalismo o della polietnicità non possono più essere considerati esotismi, buoni solo per gli americani (o gli inglesi). Il tempo in cui, tutto sommato, si poteva ancora dire così è finito. Bisogna con umiltà e coraggio mettere mano a una nuova agenda di lavoro politico e culturale.



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