C’è vita nel PD di Sona?

(articolo pubblicato su www.ilbacodaseta.org il giorno 16 gennaio 2012 a firma di Mario Salvetti. Articolo che, purtroppo, in alcuni punti ci trova anche d’accordo, ma che sembra fare una fotografia troppo negativa non tanto della situazione di consensi ma dell’impegno e del lavoro che il Partito Democratico sta cercando di svolgere nel comune di Sona).

A Sona ci troviamo in mezzo ad un guado politico. La legislatura ha ancora un anno e qualche mese di vita (voteremo nella primavera del 2013) ma cominciano già ad avvertirsi i primi sintomi di pre-campagna elettorale, con i vari movimenti politici locali che iniziano a guardarsi attorno in previsione delle prossime amministrative che ci daranno un nuovo Sindaco ed un nuovo Consiglio Comunale.

Il guado che stiamo attraversando ci porterà alla nuova sponda, ed allora sarà agevole identificare le forze politiche che si presenteranno alle prossime elezioni, ma per adesso impedisce di fare analisi definitive. E’ un guado, ed è pertanto possibile ragionare solo in prospettiva.

Qualche settimana fa avevamo parlato della situazione del PDL, oggi proveremo a ragionare attorno allo stato di salute del Partito Democratico di Sona. Salute che non sembra delle migliori.

Il PD è guidato dall’ottobre del 2011 da Mirko Ambrosi, proveniente da Palazzolo anche se recentemente è andato a vivere fuori dal Comune di Sona. Ambrosi succede a Giorgio Tacconi di San Giorgio.

Il Partito a Sona soffre da sempre di grossi problemi di visibilità e nuota in acque basse, schiacciato nelle nostre frazioni da quelle portaerei politiche locali – in termini di voti – che sono il PDL e soprattutto la Lega Nord.

Nelle scorse amministrative del 2008 il PD non si era presentato al verdetto elettorale, preferendo un appoggio esterno alla Lista Civica L’Incontro, alla quale avevano aderito – e ora siedono in Consiglio in minoranza – Marco Aldrighetti e Giovanni Forlin e Mirko Ambrosi stesso.

Ora che l’esperienza della Lista Civica sembra finita è certo che alle amministrative del 2013 il PD di Sona si presenterà con il proprio simbolo, con una propria lista e con un proprio candidato Sindaco. E correrà quasi sicuramente da solo. Sul possibile candidato Sindaco è ancora notte fonda: Ambrosi non si è detto disponibile, Forlin non appare interessato e altri nomi per adesso non si fanno.

Una scelta, quella di partecipare con i propri colori e i propri simboli, doverosa ed apprezzabile, ma con quali possibilità? Poche, anzi pochissime se la situazione politica locale non dovesse subire una mutazione così radicale da apparire oggi impensabile.

L’elettorato di Sona è per tradizione conservatore, e le liste “di sinistra” non hanno mai avuto risultati significativi. Per trovare una sinistra che governa Sona bisogna tornare a qualche amministrazione degli anni 70-80, ma si parla di sinistra DC, quindi comunque anni luce distante da quello che può essere il PD oggi.

Al di la’ di questo motivo quasi antropologico, è evidente che il PD a Sona non riesce a canalizzare consensi e a muovere persone. Restituisce l’immagine di un circolo chiuso, frequentato solo dai soliti (volonterosi) noti. E questo in parte proprio per un atteggiamento che talvolta appare troppo elitario, ingessato e privo di una vera volontà di dialogo con le altre forze presenti sul territorio, privo di una vera volontà di aprirsi anche a chi magari non può vantare un immacolato pedigree di militanza politica. Ed in parte perché il partito paga, come scrivevamo sopra, quel “peccato originale” di essere – appunto – di sinistra. Un marchio di fabbrica che certamente a Sona non vende bene.

Come uscire da questo circolo vizioso? Non si danno consigli non richiesti, ma quello che appare a chi – come noi – osserva da fuori è un’incapacità strutturale, ideologica, culturale di cambiare pelle, di scrollarsi di dosso la vecchia struttura da partito burocratizzato degli anni ’50 e provare ad evolversi secondo modelli organizzativi più leggeri e con linguaggi meno notarili. Per dirla con un esempio, sicuramente per coinvolgere le persone non basta più il classico volantino ciclostilato e verboso appeso in giro per le frazioni. Eppure sono sempre e solo quelle le strade che si percorrono.

Quali prospettive quindi per il PD locale, per quanto si vede oggi? Probabilmente l’unico orizzonte praticabile è quello di ottenere nel 2013 un risultato elettorale decente e portare qualche rappresentante in Consiglio per proporre un’opposizione tosta.

Chiedere di più oggi dalle urne a Sona appare irrealistico.


Liberalizzazioni: 41 norme ad effetto immediato

Le proposte PD per aiutare i consumatori e le imprese, abbassare i prezzi, sbloccare gli investimenti, creare lavoro.

L’Italia ha bisogno di una nuova stagione di liberalizzazioni, intesa in senso ampio e molteplice. Ciò vuol dire: aprire alla concorrenza mercati chiusi o in regime di monopolio; dare più potere e libertà ai consumatori nei mercati caratterizzati dalla presenza di forti operatori; ridurre le barriere di accesso a categorie economiche e professioni; dotarsi di Autorità di regolazione realmente indipendenti dal potere politico, sia nei settori dove già operano, sia in quelli in cui si è sprovvisti; rivedere la regolamentazione di alcuni settori di grande impatto sociale, in cui la liberalizzazione ha funzionato poco e male, prevedendo anche forme di intervento pubblico al fine di assicurare la fruibilità dei servizi ai
cittadini a costi accessibili.

Professioni
Portare a compimento la riforma organica del sistema delle professioni dopo quindici anni di sterile dibattito parlamentare.
Proposte:
1. Modernizzare il ruolo e l’assetto degli Ordini professionali
La modernizzazione è necessaria per qualificare l’esercizio delle professioni, assicurare gli obblighi di corretta e trasparente informazione agli utenti, la concorrenza e la credibilità della professione nonché per tutelare l’interesse pubblico risolvendo situazioni di conflitto. Non meno importante è ridurre in maniera incisiva i costi, a carico degli iscritti, per il funzionamento degli organi e delle strutture amministrative degli Ordini.
2. Garantire pari opportunità alle giovani generazioni
Accorciare la distanza tra le fasi di studio e accesso all’esercizio effettivo della professione, eliminare qualunque requisito di età o anzianità di esercizio nell’accesso alle cariche elettive degli organi nazionali e territoriali degli Ordini e infine prevedere sostegni e borse di studio per giovani professionisti in situazioni di disagio economico.
3. Riformare il tirocinio, prevedendo una durata limitata ed un equo compenso
4. Equiparare le professioni intellettuali al settore dei servizi
L’equiparazione è necessaria ai fini del riconoscimento delle misure (comunitarie e nazionali) di sostegno economico per lo sviluppo dell’occupazione e degli investimenti, con particolare riferimento ai giovani.
5. Riconoscere le professioni non regolamentate
Vanno regolate le libere associazioni costituite su base volontaria e senza diritto di esclusiva tra professionisti (sono circa 3 milioni) che svolgono attività non regolamentate in Ordini, attribuendo ad esse anche compiti di qualificazione professionale.
(Su tutte queste proposte il PD ha già presentato ddl in Parlamento)
Farmaci
Ampliare il processo di liberalizzazione avviato nel 2006 (che ha aperto alla concorrenza la vendita dei medicinali da banco, cioè quelli che non hanno bisogno di prescrizione medica), dando ora la facoltà alle parafarmacie e ai corner della grande distribuzione (in tutto 3.300 punti di vendita che occupano  circa 6.000 farmacisti) di vendere anche i farmaci di fascia C (un segmento che vale circa 3 miliardi di euro in termini di fatturato) e quindi così tutti i medicinali non dispensati dal Servizio Sanitario Nazionale.
Altre misure dovrebbero essere poi definite per migliorare l’efficienza e la concorrenzialità in tutta la filiera del farmaco (dall’industria fino al consumo, passando per la distribuzione intermedia) allo scopo di abbassare i costi e rendere più accessibile il servizio distributivo ai cittadini, dando ai titolari di esercizio la facoltà di tenere aperto oltre l’orario stabilito dai regolamenti.
Proposte:
1. Liberalizzazione della vendita di tutti i medicinali a carico dei cittadini
(Ddl già depositato a Camera e Senato)
2. Facoltà alle farmacie di stabilire un orario di apertura superiore al minimo
(Testo in corso di elaborazione)
Carburanti ed energia
Creare condizioni di mercato maggiormente concorrenziali in tutta la filiera petrolifera che è oggi dominata da un oligopolio costituito da 8 società integrate verticalmente (cioè che contestualmente producono, commercializzano all’ingrosso e vendono al dettaglio) e che determina un extra prezzo di alcuni centesimi di euro per ogni litro di carburante a carico dei nostri automobilisti rispetto al panorama europeo.
Mancano nel nostro Paese sia forti operatori commerciali puri in grado di contrattare liberamente con i produttori sul piano nazionale e internazionale le migliori condizioni di acquisto dei carburanti, sia un numero sufficiente di rivenditori al dettaglio (cioè di stazioni di rifornimento) autonomi rispetto ai produttori e indipendenti sul piano dell’offerta commerciale e quindi dei prezzi di vendita. In virtù di una maggiore pressione concorrenziale, con una diminuzione prevista dei prezzi di vendita di 4 centesimi al litro si potrebbe assicurare alla collettività un risparmio complessivo stimabile in circa 2 miliardi di euro nel triennio.
È possibile creare maggiore concorrenza nel mercato e far diminuire il peso della bolletta del gas procedendo immediatamente alla separazione dell’operatore della rete di trasporto del gas naturale e degli stoccaggi dall’operatore dominante (Eni).
Si può stimare, sulla base di quanto avvenuto anche nel mercato elettrico, che l’impatto a regime della separazione proprietaria potrebbe consentire all’Italia di recuperare il differenziale con la media UE relativamente al prezzo all’ingrosso del gas, con un risparmio pari circa 4 miliardi di euro.
Inoltre, tale separazione potrà determinare un potenziamento degli investimenti in trasporto e soprattutto in stoccaggio volto a garantire un dimensionamento delle infrastrutture stesse indispensabile sia in termini di sicurezza che di competitività e concorrenzialità del sistema del gas nel nostro Paese.
La questione della separazione proprietaria della rete è stata sollecitata più volte dall’Autorità per l’Energia e il Gas.
Proposte:
1. Libertà di approvvigionamento dei gestori della rete dei carburanti
Concedere ai distributori legati da vincoli di esclusiva alle compagnie petrolifere (che gestiscono direttamente o indirettamente la gran parte dei 22.450 punti di vendita al dettaglio) la facoltà di approvvigionarsi di carburanti presso altri fornitori: l’acquisto in esclusiva non potrà superare il 50% e il singolo esercente al dettaglio potrà acquistare la restante parte da altri rifornitori ai migliori prezzi presenti sul libero mercato.
2. Acquirente unico per il commercio all’ingrosso dei carburanti
Assegnare in via straordinaria e temporanea alla società pubblica “Acquirente unico” (che attualmente svolge funzioni analoghe nel mercato dell’energia elettrica) il compito di esercitare anche attività di commercio all’ingrosso dei carburanti, in modo da rifornire migliaia di punti di vendita al dettaglio a prezzi competitivi e così contribuire al contenimento dei prezzi al consumo, superando le attuali strozzature del mercato.
3. Eliminazione dei vincoli regionali sulla liberalizzazione della distribuzione dei carburanti
Intervenire, rimuovendo vincoli normativi e amministrativi a livello regionale e locale e varando misure di accompagnamento, sia sulla distribuzione all’ingrosso che su quella al dettaglio, allo scopo di dotare il nostro Paese di un numero percentualmente adeguato di stazioni di rifornimento indipendenti e maggiormente dotate di pompe self-service, anche offrendo la possibilità ai gestori degli attuali impianti in comodato di diventare imprenditori autonomi.
4. Separazione proprietaria rete trasporto gas
La questione della separazione proprietaria della rete è stata sollecitata più volte dall’Autorità per l’Energia e il Gas. L’Eni infatti possiede tutt’ora il 50% della società proprietaria delle rete, Snam Rete Gas, la quale controlla dal febbraio 2009 il 100% di Stogit, società che gestisce il sistema dello stoccaggio in una sorta di monopolio tecnico.
(Testi già elaborati e presentati come emendamenti alla manovra di luglio )
Banche
Nel settore dei servizi bancari molto si può ancora fare per sviluppare la competizione concorrenziale, per migliorare la trasparenza dei prezzi e le condizioni e per contenere i costi per Pmi e consumatori che, secondo un recente studio della Commissione europea, pagano due volte e mezzo la media UE per un conto corrente.
Nel corso del 2010 si è poi registrato un peggioramento delle condizioni per la clientela italiana, con un aggravamento di tutte le voci di costo di gestione di un conto corrente (dalle singole operazioni fino al canone per bancomat e carta di credito, oltre a commissioni e oneri vari). E questo, in un mercato armonizzato e concorrenziale su base comunitaria, non è più giustificato nei diversi luoghi di negoziazione, né la complessità tecnica e l’innovazione tecnologica possono essere un pretesto per il sistema bancario per trascurare continuamente i principi di trasparenza e di rigorosa condotta nei confronti dei clienti.
Un indicatore per misurare la concorrenza nel settore è la mobilità dei clienti: nel nostro Paese la quota percentuale di coloro che cambiano conto corrente ogni anno è la metà rispetto ai principali paesi europei. Allora, sulla falsa riga delle norme sulla portabilità gratuità dei mutui varate nel 2007 (che andrebbero comunque rafforzate nonostante il fatto che da un po’di tempo le c.d. surroghe e le rinegoziazioni costituiscono oramai circa un quarto delle totale delle pratiche di mutuo immobiliare), occorre far nascere una analoga procedura obbligatoria per la rapida e non onerosa portabilità dei c/c, quale leva concorrenziale per far abbassare i costi per la clientela.
Parallelamente si dovrebbe stabilire per legge la nullità di tutte le clausole, indipendentemente dalla denominazione utilizzata dalle singole banche, che prevedono una commissione per l’affidamento temporale di fondi, cioè per l’utilizzo di somme oltre la disponibilità del conto corrente (scoperto transitorio), sostituendo la norma introdotta dal Governo Berlusconi che limita solo parzialmente l’uso delle cosiddette “commissioni di massimo scoperto” nei conti correnti. Infatti, come ha rilevato l’Antitrust, tale norma ha determinato un innalzamento dei costi a carico dei correntisti rispetto alle strutture di prezzo precedentemente in uso nella prassi bancaria.
La governance delle banche italiane è infine segnata, come sostenuto più volte dal presidente dell’Antitrust, da intensi intrecci azionari e personali tra imprese concorrenti che costituiscono una peculiarità nazionale che frena le spinte concorrenziali, riduce la contendibilità del controllo e attenua il rapporto tra capitale di rischio investito e responsabilità. Occorrere pertanto porre rimedio o freno a tale situazione.
Proposte:
1. Portabilità gratuita dei conti correnti
(Testo in corso di elaborazione)
2. Abolizione della clausola di massimo scoperto e di altre commissioni analoghe nei c/c bancari
Stabilire la nullità di tutte le clausole, comunque denominate, che prevedono una commissione per l’affidamento temporale di fondi, cioè per l’utilizzo di somme oltre la disponibilità del conto corrente (scoperto transitorio). Poiché l’Autorità ha invitato il legislatore a porvi rimedio, la norma proposta intende mettere uno stop definitivo a queste voci di costo dei conti correnti, che oltre ad essere particolarmente onerose per famiglie e piccole imprese, sono anche poco trasparenti. Si affida, inoltre, alla Banca d’Italia il controllo sul corretto rispetto delle nuove prescrizioni e il potere di stabilire i criteri e le modalità per la corretta informazione ai clienti delle condizioni economiche dei servizi  offerti dalle banche. Lo stesso Governatore della Banca d’Italia, del resto, era intervenuto lo scorso febbraio chiedendo una nuova legge per semplificare e rendere più trasparente la struttura delle commissioni bancarie.
(Testo già  presentato come emendamento alla manovra di luglio)
3. Divieto di ricoprire incarichi incrociati nei CdA delle banche
(Testi in corso di presentazione)
Autorità di Regolazione, Trasporti e Poste
Trasporti e infrastrutture sono due settori in cui la liberalizzazione dei vari segmenti dell’offerta commerciale e l’affacciarsi di nuovi operatori sul mercato procedono lentamente, secondo principi fissati dalle direttive comunitarie e in base alle decisioni governative. Qualunque intervento in questi ambiti richiede particolare attenzione al fine di conciliare i diritti di accesso dei nuovi operatori entranti con gli obblighi di universalità posti attualmente a carico dei soggetti ex monopolisti per la fornitura di servizi di interesse pubblico.
Per questo motivo, e allo scopo di assicurare una corretta e leale concorrenza tra gli operatori, regole, tempi, modalità e compiti di controllo non possono essere decisi e svolti da istituzioni governative (che oggi sono costituiti dai rispettivi Ministeri di competenza; per i servizi postali il Governo, in uno schema di decreto legislativo attualmente all’esame, intende attribuire la vigilanza a un’Agenzia sempre di emanazione ministeriale), bensì da Autorità realmente indipendenti dalla politica e dal Governo.
Per impedire il passaggio delle stesse persone da un’autorità all’altra, pratica che rischia di minarne l’indipendenza ed autonomia di giudizio e di non garantire la necessaria acquisizione di competenze va stabilito il divieto di assumere un nuovo  incarico in altra Autorità, prima di un certo lasso di tempo, da parte di chi è stato componente di un’Autorità indipendente.
Va poi riformato il meccanismo di adeguamento tariffario, per i pedaggi autostradali,  ancorato all’andamento dell’inflazione legandolo maggiormente alla qualità del servizio offerto e degli investimenti effettuati.
È infine opportuno sopprimere il PRA (Pubblico registro automobilistico) poiché assolve alle stesse funzioni dell’Archivio nazionale degli autoveicoli che è un registro più completo e perché costituisce un inutile e dispendioso adempimento amministrativo per gli automobilisti.
Proposte:
1. Istituzione dell’Autorità dei trasporti
2. Regolazione del settore dei trasporti
3. Trasferimento delle funzioni di regolamentazione dei servizi postali all’AGCOM
(Su tutte queste proposte il PD ha già presentato ddl in Parlamento)
4. Divieto di ricoprire più incarichi nelle autorità indipendenti
5. Regolamentazione delle tariffe autostradali
6. Soppressione del pubblico registro automobilistico (PRA)
(Testi in corso di elaborazione)
Assicurazioni
L’abnorme incremento delle tariffe dal 1994 ad oggi, cioè da quando fu avviata (formalmente) la  liberalizzazione dei prezzi, in attuazione di norme comunitarie, e il contesto di difficoltà nel quale si muovono i clienti, con scarse e contrastanti informazioni, sono oramai sintomi accertati che dimostrano come in Italia il mercato della rc-auto non sia affatto concorrenziale.
Si tratta di un mercato asfittico che, in queste condizioni, non può funzionare come qualsiasi mercato libero di beni o servizi. La domanda è certa e statica in quanto scaturisce dall’obbligatorietà per gli automobilisti di assicurarsi. I clienti che ogni anno cambiano compagnia assicurativa rappresentano una bassissima percentuale, anche a causa delle clausole di tacito rinnovo delle polizze che quindi devono essere vietate.
Le imprese di assicurazione, che sono tenute obbligatoriamente a fornire il servizio, possono di anno in anno modificare unilateralmente le condizioni tariffarie oppure, come sta accadendo in modo diffuso e con gravi ripercussioni di ordine sociale in diverse aree del Sud, possono procedere alla disdetta del contratto con i propri clienti. Il comparto della rc-auto non deve essere trattato come un mercato in cui sono solo i contraenti più deboli a rischiare, pagando (praticamente a pie’ di lista) i costi globali del sistema.
La costituzione di gruppi di acquisto tra automobilisti a livello territoriale va promossa da parte dello Stato, per consentire agli stessi di trattare le condizioni avendo più potere contrattuale con le imprese di assicurazione.
Il sistema del bonus-malus si è rivelato un fallimento per gli assicurati: la stragrande maggioranza di essi oggi si concentra nelle prime tre classi di merito e questo non ha portato, come avrebbe dovuto essere secondo i principi originari del sistema, ad una progressiva diminuzione del premio da pagare in rapporto alla condizione di minor rischio per le imprese assicurative.
In tutti questi anni, le polizze bonus-malus alla fine hanno quindi penalizzato soprattutto gli automobilisti virtuosi (per loro è sempre malus-malus), oltre a discriminare, oltre misura ed in  modo generalizzato, i giovani e gli automobilisti delle regioni meridionali che si trovano di fronte ad offerte di prezzo insostenibili.
Alla luce di tutto ciò appare necessario ripensare profondamente il meccanismo della rc-auto che non può non essere considerato alla stregua di un servizio di pubblica utilità e pertanto andrebbe ipotizzato un vigoroso intervento pubblico di regolamentazione, se si ritiene prevalente la finalità di far conciliare il principio di mutualità, posto alla base dell’obbligo di assicurazione, con l’interesse pubblico a garantire ai cittadini l’esercizio di un fruibile ed universale servizio di tutela.
Contestualmente all’esigenza, non più procrastinabile, di procedere ad una riforma della rc-auto, occorrerebbe infine intervenire, anche con misure collaterali, quali quelle per il contrasto alle frodi assicurative, accelerando la nascita dell’apposito Ufficio centrale antifrode, e alla lievitazione anomala del costo dei sinistri, secondo quando segnalato da Isvap.
Proposte:
1. Abrogazione del tacito rinnovo del contratto RC auto
2. Divieto di modifiche unilaterali del contratto RC auto
3. Promozione dei gruppi di acquisto solidali polizze RC auto
4. Revisione del meccanismo del bonus malus
(Testi in corso di elaborazione)
5. Istituzione dell’Ufficio centrale antifrode
(In corso di approvazione alla Camera)
Commercio
Il commercio al dettaglio è stato il primo grande settore privato (circa 800.000 imprese coinvolte) che è stato oggetto di un incisivo intervento di liberalizzazione e sburocratizzazione: nel lontano 1998 (riforma Bersani), furono eliminati i vincoli numerici, i requisiti di abilitazione e le licenze per l’apertura dei negozi e successivamente furono trasferite alle Regioni le competenze legislative.
Oggi la regolazione del settore è diventata più complessa: per alcuni versi, occorre disporre, in un mercato globalizzato, di poche e uniformi, sul piano territoriale, regole concorrenziali; per altro verso è indispensabile avere una connotazione locale e integrata dei fattori di sviluppo delle imprese e dei luoghi del commercio, come strumenti di servizio ad alto valore aggiunto per le comunità di riferimento.
Il PD ribadisce l’ esigenza di un rinnovato governo del sistema perché il commercio è elemento genetico e qualificante della stessa costituzione urbana, gli assetti commerciali hanno un impatto generale, non solo imprenditoriale; governo del sistema non per limitare la concorrenza ma per favorire una evoluzione sostanziale non traumatica dei vari ambiti del commercio che tenga conto anche delle funzioni territoriali, sociali e ambientali
Alle attività classiche di vendita di beni ai consumatori, si vanno progressivamente aggiungendo altre tipologie di servizi: si tende, in alcune componenti, ad internalizzare funzioni tipiche della produzione; si svolgono funzioni connesse con il valore d’uso dei prodotti (specie per il risparmio di tempo), con i bisogni informativi ed educativi, con il bisogno di svago, divertimento e socialità.
Occorrono quindi politiche mirate alla promozione di una maggiore integrazione tra attività commerciale e servizi rivolti alla persona e alla famiglia incoraggiando una maggiore creazione di valore a favore del consumatore e a tutto vantaggio anche dell’impresa commerciale.
In questo senso occorre rimuovere i restanti vincoli che ancora oggi impediscono l’innovazione dell’impresa commerciale, e più in particolare la libertà di abbinare la vendita di beni alla fornitura di servizi ai consumatori.
Per quanto riguarda l’apertura domenicale, appare oggi anacronistica e discriminatoria (per la discrasia nei criteri utilizzati dalle Regioni) la distinzione tra comuni turistici e non turistici per quanto riguarda il potere di fissare il calendario delle aperture domenicali degli esercizi commerciali: a tutti i comuni dovrebbe essere quindi essere attribuita la competenza a stabilire in quali giorni dell’anno concedere agli operatori la facoltà di aprire la domenica, nel rispetto delle deroghe e dei limiti stabiliti dalle leggi regionali.
Oltre a rispondere ad esigenze di carattere “sociale” il commercio dei piccoli negozi può contribuire a mantenere “alto” il livello qualitativo delle aree in cui è insediato. La rarefazione delle attività tradizionali nei centri storici (anche a causa delle rendite immobiliari che nei centri storici sono molto alte) e il determinarsi di una selettività solo di determinati operatori può produrre come risultato che i centri storici divengano pressoché uguali perdendo quelle caratteristiche che li identificavano da un punto di vista sociale e culturale.
Bisognerebbe perciò incentivare l’apertura di piccoli esercizi di prossimità nei centri più svantaggiati, prevedendo un alleggerimento fiscale per i “negozi alimentari” di vicinato nei centri urbani di piccole dimensioni e nelle frazioni
Proposte:
1. Estensione a tutte le attività commerciali di fornire liberamente ai consumatori anche servizi integrati con la propria attività economica principale
2. Facoltà apertura domenicale dei negozi nei Comuni non turistici
3. Sostegno fiscale, per i primi anni di attività, agli esercizi di prossimità nei centri minori
(Testi in corso di elaborazione)
Semplificazioni per le imprese
L’obiettivo è semplificare e accelerare le procedure di avvio delle attività sia nella fase progettuale che nella fase di ultimazione dei lavori e messa in funzione operativa degli impianti.
Proposte:
1. Consentire l’avvio immediato di stabilimenti produttivi con autocertificazione e controlli ex-post
Va consentito all’imprenditore, tramite la semplice autocertificazione sulla base della sussistenza dei requisiti attestati da un professionista, di ottenere immediatamente dal Comune una ricevuta che abilita all’avvio dell’attività ovvero dei lavori di realizzazione dell’impianto. Al Comune spetta poi l’onere di provare la sussistenza dei requisiti con attività di verifica e controlli.
Se gli interventi previsti sono in contrasto con gli strumenti urbanistici, l’imprenditore può richiedere l’immediata convocazione della Conferenza dei servizi.
La messa in funzione operativa dell’impianto, a conclusione dei lavori, è consentita immediatamente sulla base di una semplice comunicazione al Comune corredata da una dichiarazione del direttore dei lavori. Comuni e altre amministrazioni sono tenuti a svolgere a posteriori verifiche e controlli e possono interrompere il procedimento in sede di autotutela una sola volta.
2. Dare piena autonomia alle imprese
Le imprese devono poter scegliere le modalità di esercizio e i tempi di svolgimento delle attività economiche con libertà di stabilire gli orari di attività, salvi gli eventuali limiti minimi a tutela dell’accesso dei consumatori  e gli eventuali limiti  giustificati da specifiche ragioni di pubblica quiete.
3. Facilitare l’accesso a nuove attività economiche
Va data piena attuazione alla “direttiva europea servizi” rivedendo tutte le norme attuative del Governo Berlusconi (decreto legislativo n. 59 del 2010) che escludono l’efficacia della direttiva per particolari attività e che consentono di mantenere vecchie procedure autorizzatorie.
Tutela dei consumatori
Con l’arrivo del governo Berlusconi gli oppositori della legge sulla class action voluta dal Governo Prodi (faceva parte del pacchetto cittadino-consumatore del giugno 2006) hanno trovato facile ascolto: l’entrata in vigore – originariamente prevista per il 1 luglio 2008 – è stata rinviata di un anno e mezzo.
Nella nuova versione, entrata in vigore il 1 gennaio 2010, è stata completamente svuotata la potenzialità di questo strumento di tutela collettiva, destinato inizialmente a ridurre le asimmetrie nel mercato e a moralizzare i comportamenti e la pratiche commerciali nei confronti del cittadino-consumatore.
È evidente, anche dai primi pronunciamenti di inammissibilità, che questo strumento giudiziario di tipo risarcitorio non fa più paura alle grandi imprese di servizi che perpetuano nei confronti di migliaia di clienti, pratiche vessatorie il più delle volte del valore di poche decine di euro. Va quindi reso meno oneroso e rischioso, e quindi più agevole, l’accesso alla giustizia per i consumatori e le loro associazioni.
Proposte:
1. Semplificazione dell’accesso alla class action
Attualmente il consumatore deve farsi carico dell’azione giudiziaria di classe, sia come proponente sia come aderente al gruppo, e deve per questo rivolgersi a un avvocato oppure dare mandato all’avvocato dell’associazione proponente per depositare alla Cancelleria del Tribunale l’atto di adesione e la documentazione. Anche la scelta di assegnare la competenza a valutare l’ammissibilità delle class action solo ai tribunali dei capoluoghi di regione crea problemi di accesso. Alla fine ci si dovrà quasi sempre rivolgere ai già intasati tribunali di Roma e Milano
2. Estensione del campo di applicazione della class action
Il campo di applicazione della legge è stato limitato: per presentare una richiesta di risarcimento collettivo è necessario che i diritti dei componenti della classe da tutelare siano identici.
3. Eliminazione dei disincentivi a intraprendere azioni di tutela
Beffarda e disincentivante è la disposizione che prevede che qualora il proponente, anche il singolo individuo, presenti un’azione manifestamente infondata oppure non sia in grado di curare adeguatamente gli interessi della classe è tenuto a pagare sia le spese di pubblicità della decisione di inammissibilità operata dal giudice, sia gli eventuali danni per responsabilità aggravata, quali quelli di immagine, procurati all’impresa chiamata in giudizio.

D’Arienzo: brutto clima a ridosso delle elezioni

Prima l’addestramento alla lotta e alla resistenza fatto nella nostra città a Porto S. Pancrazio, adesso lo show contro Equitalia. Forza Nuova rimanifesta la propria natura insofferente al confronto democratico.

D’Arienzo: “non mi piace il clima che stanno creando a Verona a ridosso delle prossime elezioni comunali. E non mi piace il silenzio delle Istituzioni. Sull’addestramento nella fattoria didattica del Giarol Grande, nel parco dell’Adige sud, non s’è levato un grido, anzi, qualcuno da Palazzo Barbieri li ha anche “legittimati”. Spero non si ripeta anche stavolta.

Verona è al centro della loro attenzione. Il 14 gennaio è previsto un concerto “nazirock”. Una sospetta concentrazione di eventi nella nostra città. Questa escalation non mi sembra casuale.

Il pericolo sembrava lontano, ma adesso coinvolge anche Verona. Nessuno può accettare cose del genere. In Italia abbiamo già conosciuto pallottole e impiccati. La politica veronese dica prima no a questa deriva locale, che sarà anche per mettersi in mostra, ma che crea inutili aspettative e danneggia l’immagine di Verona.

Auspico parole nette da parte di tanti, continua D’Arienzo. Quei voti sono serviti per l’elezione di Tosi, che li ha ringraziati passeggiando con loro nei cortei, ma in democrazia non possono far gola: chi non rinnega la violenza, verbale e politica, deve restare fuori dalla porta.

Il problema di Equitalia esiste, ma non posso condividere queste messinscene perché c’è il rischio che da questi atteggiamenti venga fuori una giustificazione di massa a chi intende usare la violenza, anche e soprattutto perché andiamo incontro a mesi delicati di campagna elettorale.

Equitalia – creata dal Governo Berlusconi e diretta da Tremonti – va migliorata. E’ comunque un modo per recuperare l’evasione, ma vanno evitati casi estremi. E per farlo, occorre tenere presente la situazione economica che in qualche occasione sta determinando vere difficoltà nel pagamento dei contributi previdenziali ed erariali, e costringe in alcuni casi gli imprenditori a fare ricorso alle forme più disparate di finanziamento, spero sempre ufficiali, conclude D’Arienzo.

Va tenuto conto anche che le banche non concedono molti prestiti.

Insomma, Equitalia deve modificare la procedura di rateizzazione delle somme iscritte a ruolo da 72 a 120 mensilità, eliminare la mora nella parte di debito relativo alle sanzioni, proporzionare le sanzioni al livello del debito da riscuotere, compensare i debiti/crediti che i contribuenti interessati hanno con la Pubblica Amministrazione.

Il confronto è questo, senza minacce.

Saranno in tanti ad aderire ad una pacata discussione senza minacce, pallottole e cappi?”

Dal sito www.pdverona.it


Università e ricerca: le proposte PD

La nuova stagione politica avviata con l’insediamento del governo guidato da Mario Monti contiene in sé i tratti dell’emergenza e, al contempo, la volontà di riattivare lo sviluppo, a partire dagli interventi di stabilizzazione e riforma necessari per superare la drammatica condizione economica e sociale italiana ed europea. Emergenza e speranza sono tratti che si proiettano con la medesima intensità nell’azione di governo relativa all’università e la ricerca.

Il Partito Democratico guarda a questo “impegno nazionale”, che rappresenta la cifra costitutiva del governo Monti, con apprezzamento e interesse, e intende partecipare a questa fase attraverso il sostegno politico e parlamentare, accompagnato da un’azione di stimolo e proposta che, su questi temi, prende le mosse dalle posizioni programmatiche elaborate dall’Assemblea nazionale e dalle posizioni assunte nell’iter parlamentare che ha condotto, con la nostra ferma opposizione, all’approvazione della Legge 240/2010.

In questo documento intendiamo affrontare i temi che, a nostro avviso, riguardano più direttamente l’agenda per l’università e la ricerca del governo, in ragione della sua natura costitutiva e della combinazione di vincoli e opportunità ad essa connessi. Crediamo pertanto che, tanto più in questo tratto finale di legislatura, sia opportuno concentrare l’attenzione principalmente sul terreno dell’attuazione della L. 240. Al contempo intendiamo sviluppare, a partire da gennaio, una riflessione che ci conduca ad aggiornare il nostro programma, ponendo il sistema universitario nell’ambito di una visione complessiva da un lato delle politiche per la ricerca e l’innovazione quali nucleo essenziale delle azioni per la crescita e la competitività del Paese, e dall’altro del sistema dell’istruzione quale elemento fondante per la qualificazione delle risorse umane e per favorire la mobilità sociale e creare occupazione di qualità.

Siamo convinti che nel processo di attuazione della L. 240 vi siano, nonostante tutto, notevoli spazi per attenuare gli effetti più negativi della legge, e così da fare di questa fase una sorta di ponte, che renda più stabile e efficiente il sistema, e meno confuse le regole e le prassi che lo governano, e da porre dunque le basi per un suo effettivo rilancio. Particolare attenzione dovrà essere riservata alle indicazioni contenute nella lettera con la quale il capo dello Stato accompagnava, esattamente un anno fa, la sua promulgazione, facendo esplicito riferimento alle questioni delle risorse, delle carriere dei giovani ricercatori e del diritto allo studio, ed alla necessità di ricercare, da parte del governo, un “costruttivo confronto con tutte le parti interessate”.

La natura e i compiti di questo governo richiamano alcune ulteriori indicazioni di fondo. La prima è la necessità di tener conto degli impegni che, anche in questa materia, il governo ha assunto rispetto alle istituzioni europee, richiamate da ultimo nel Report conclusivo dell’Eurogruppo del 29 novembre scorso. Crediamo poi che questo governo sia nelle condizioni ottimali per attuare una revisione di procedure e prassi operative, mirando alla trasparenza di dati, processi e obiettivi: in particolare il riferimento è alla connessione tra dati sul sistema – già disponibili – e obiettivi dell’azione di governo, e ai processi decisionali, con riferimento anzitutto alla ripartizione delle risorse per le università, i progetti e gli enti di ricerca.

L’attuale situazione richiede, in altri termini, una prima condivisione – con gli interlocutori politici e parlamentari, il mondo accademico e la più generale opinione pubblica – delle condizioni di partenza e degli obiettivi, sulla base dei quali porre in essere un tessuto di azioni e misure capaci di ridare dignità e sviluppo a politiche che, è opinione unanime, sono essenziali per la crescita economica, civile, democratica.


1. Le condizioni di partenza

Il nostro giudizio sulle politiche universitarie nell’ultimo decennio, quasi esclusivamente governato dal centrodestra berlusconiano, è netto: si è affermata una cultura che nel complesso ha mostrato scarsa considerazione, quando non aperta ostilità, nei confronti del mondo dell’università e della ricerca. Con una ulteriore accelerazione negli ultimi 3 anni e mezzo, per l’operare congiunto di interventi legislativi errati e in ogni caso carenti in termini di capacità di introdurre le riforme necessarie, e di una compressione di grande rilievo delle risorse ordinarie per il sistema universitario e della ricerca, già ampiamente sottofinanziato rispetto alle medie europee e OCSE. In altre nazioni gli investimenti in ricerca scientifica sono stati fra i pochissimi risparmiati dalle politiche di austerità imposte dalla crisi economica; in Italia il precedente governo, pur aumentando la spesa pubblica, ha tagliato senza criterio le infrastrutture della conoscenza. Per cambiare passo, occorre avviare una fase di rilancio che consideri finalmente ricerca ed innovazione i principali motori della crescita economica di una nazione moderna e tenga conto dell’importanza dell’economia dell’apprendimento nell’attuale contesto internazionale. Agire in questa direzione appare sempre più urgente, perché oggi la ricchezza delle nazioni si misura non solo sul denaro, ma sulla condivisione della conoscenza e sulla capacità continua di evolversi, di innovare e di attrarre talenti. È sempre più necessario ripensare l’intero sistema economico a partire da questo nuovo paradigma.

A partire dalla ricerca, l’asimmetria tra risorse (ridottissime) e risultati (molto positivi) è un dato che deve da un lato rassicurare sulla tenuta complessiva del nostro sistema educativo, e dall’altro indurci a comprendere che c’è ancora la possibilità di non perdere il treno della competizione internazionale. I numeri ci dicono che il nostro Paese si colloca tra il settimo e l’ottavo posto nella graduatoria fra le nazioni, con una crescita del numero annuo di pubblicazioni che fra il 1996 e il 2008 è stata la più alta fra i paesi del G8. Per converso, è noto che i nostri investimenti in ricerca sono in ritardo rispetto agli standard europei, con un trend negativo che nel 2011 ci porterà a scivolare al dodicesimo posto al mondo per investimenti assoluti, mentre l’investimento in percentuale sul PIL ci vede da tempo ben oltre il 25° posto, con un 1,18% (dato 2008) lontanissimo dall’obiettivo del 3% che il Summit di Barcellona del 2002 fissava come obiettivo da raggiungere entro il 2010, e che la Strategia Europe 2020 indica adesso per il 2020.

Anche nell’istruzione universitaria l’Italia mostra un considerevole ritardo rispetto ai migliori standard internazionali, dovuto in particolare agli scarsi investimenti sia nel sistema universitario che nel diritto allo studio. La percentuale di laureati nella popolazione italiana fra i 30 e i 34 anni è pari al 19%, contro una media europea di oltre il 30%. Quasi due terzi dei nostri laureati provengono da famiglie con almeno un genitore laureato, un dato indicativo di un sistema di sostegno allo studio drammaticamente insufficiente a garantire la mobilità sociale sancita come principio costituzionale, e di una società nella quale più che capacità e merito vengono premiate le condizioni culturali e socio-economiche di partenza. Non a caso, la percentuale di studenti universitari che fruisce di borse di studio in Italia è pari al 9%, da confrontare con i dati delle principali nazioni europee, tutte vicine od oltre il 25%. A fronte di investimenti nel diritto allo studio del tutto insufficienti, le nostre università impongono tasse universitarie fra le più alte del continente (terzo posto tra gli Stati membri dell’UE).


2. Ricostruire la fiducia tra gli italiani e l’università

In questi anni l’azione e la capacità innovativa degli atenei italiani si è indebolita. Politiche sbagliate, un costante attacco mediatico alla credibilità del sistema, partito da gravi episodi di malcostume da estirpare con decisione, hanno finito col travolgere la fiducia del nostro Paese nell’intera università. L’obiettivo primario dell’azione di governo deve essere dunque quello di ristabilire la fiducia e di ridare credibilità al nostro sistema universitario, nella consapevolezza – espressa dal ministro Profumo già nei suoi primi interventi – del ruolo cruciale che proprio l’università, nel suo complesso e attraverso l’azione dei singoli atenei nei rispettivi territori di riferimento, può giocare per la ripresa. Per un Paese che non “ama” la sua università non c’è alcuna speranza di sviluppo duraturo. D’altro canto, è giusto e doveroso chiedere sempre all’università i massimi risultati e la massima trasparenza, con un impegno etico e organizzativo che si deve tradurre soprattutto nella capacità di far funzionare al meglio le sue regole, rendendone più semplice il contenuto e più severa l’attuazione.


3. Le proposte di intervento

3.1 Premessa

Prima di entrare nel merito delle singole proposte, crediamo sia necessario chiarire gli obiettivi di fondo del sistema universitario e introdurre un’innovazione nelle procedure e nelle prassi che possa realmente migliorare il suo funzionamento.

Chiediamo che il governo assuma l’impegno di definire, sulla base delle analisi ufficiali di istituzioni italiane e internazionali, a partire dall’OCSE, gli obiettivi del sistema da raggiungere nell’immediato, nella propria azione, e a medio termine, rispetto al 2020 (in modo da apportare gli opportuni aggiornamenti al PNR e agli impegni assunti in sede europea), per quanto riguarda: il numero di laureati, il numero di studenti assistiti dal diritto allo studio (compreso il numero dei posti letto nelle residenze universitarie), il numero dei docenti strutturati e il rapporto studenti/docenti, il grado di internazionalizzazione (corsi in lingua inglese, presenza di studenti e docenti stranieri, percentuale di studenti che compiono periodi di studio all’estero), gli investimenti pubblici e privati nella ricerca e nell’università. Tutto ciò tenendo come parametro essenziale, e prospettiva tendenziale da raggiungere, i dati relativi ai Paesi dell’UE.

Quanto a prassi e procedure, crediamo che sia necessario perseguire un chiaro avanzamento in termini di processi aperti e trasparenti, con riferimento, ad esempio, alla programmazione e alla ripartizione delle risorse (FFO e FOE), all’approvazione degli statuti e degli accordi di programma, e più in generale per tutte le scelte affidate alla discrezionalità degli organi politici e amministrativi. È inoltre auspicabile che, in particolare per quanto attiene al processo di attuazione della legge 240 sia mantenuto costantemente aperto il confronto con i soggetti interessati.

Nell’affrontare la nuova fase politica, è fondamentale che il governo si confronti con le forze politiche e parlamentari – e nello specifico con il PD – sullo stato di attuazione della L. 240. Con riferimento in particolare ai provvedimenti ancora da adottare o attesi all’esame del Parlamento, è necessario intervenire per migliorare, nella sua attuazione, l’operatività di una legge alla quale, come noto, ci siamo opposti duramente.

Chiediamo anzitutto di riaprire il pacchetto di provvedimenti in via di approvazione, a partire dal fondamentale schema di decreto legislativo sul diritto allo studio, che necessita, a nostro avviso, di significativi interventi che ne migliorino la funzionalità e l’efficacia.

3.2 Proposte specifiche di intervento

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Più istruzione e più mobilità sociale: il diritto allo studio al primo posto

Il rilancio della politica universitaria deve partire dall’emergenza del diritto allo studio. Attraverso il diritto allo studio, infatti, possiamo conseguire tre obiettivi, tutti fondamentali per il Paese:

i) aumentare il numero dei laureati, per portarlo nel più breve tempo possibile nelle medie europee, invertendo una tendenza che negli ultimi anni ha visto invece diminuire il numero delle immatricolazioni;

ii) fare dell’università “il” luogo per eccellenza della mobilità sociale, consentendo l’attuazione del principio costituzionale di assicurare ai “capaci e meritevoli, ancorché privi di mezzi”, di completare il loro percorso di studi, il che accade sempre più raramente in un Paese in cui aumentano sensibilmente le differenze sociali;

iii) spingere il sistema universitario alla coesione, che può essere assicurata accompagnando la possibilità per gli studenti di spostarsi più liberamente nelle diversi sedi universitarie ad un costante e rigoroso ‘controllo di qualità’ sui titoli, e ad una politica di equa distribuzione di ‘poli di eccellenza’ sul territorio nazionale.

Si tratta di obiettivi che, nei nostri programmi, si possono perseguire attraverso un “diritto allo studio mobile”, che consenta, appunto, agli studenti contribuire alla valutazione delle università attraverso le loro scelte (e facendo di queste uno degli elementi per la valutazione e per l’assegnazione delle risorse, ad esempio attraverso l’introduzione di un costo standard per studente): in altri termini, un diritto allo studio che garantisca parità di trattamento indipendentemente dal luogo di origine e di destinazione dello studente e che pertanto lo affranchi dalla necessità di piegare la scelta vocazionale ai limiti della capacità di spesa della famiglia, con impatto negativo tanto sulla performance nello studio che sulla piena espressione del proprio talento. Alla base di questo nuovo meccanismo è necessario costruire un sistema di diritto allo studio e di orientamento già nella scuola secondaria superiore.

Nell’immediato, crediamo sia necessario definire gli obiettivi essenziali e i pilastri del sistema:

i) raddoppiare in 6 anni il numero di studenti assistiti dal diritto allo studio, per raggiungere il 25% nel 2020;

ii) stabilire regole chiare e uniformi su tutto il territorio nazionale e assicurare a tutti gli aventi diritto l’effettiva erogazione della borsa di studio;

iii) favorire la mobilità nazionale e internazionale degli studenti;

iv) esercitare una attenta e pervasiva azione perché i percorsi di studio delle università siano rispondenti alle specifiche progettuali sui quali sono impostati a partire dal rispetto dei tempi di laurea e dalla considerazione delle opportunità professionali.

Per conseguire questi obiettivi è necessario garantire la borsa di studio a tutti gli aventi diritto su tutto il territorio nazionale e con condizioni di accesso chiare e uniformi nel Paese, anche apportando le seguenti modifiche allo schema di decreto legislativo atteso all’esame parlamentare:

i) introduzione di un unico bando nazionale, con requisiti omogenei, sul sito del MIUR, al posto della miriade di criteri e requisiti degli attuali bandi ‘di sede’, cui corrispondono percentuali di effettiva erogazione assai variabili, ovviamente nel rispetto delle competenze regionali in materia e previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni;

ii) aumento del valore dell’ISEE (indicatore della situazione economica) per accedere alle agevolazioni, in modo da ampliare la platea di beneficiari, prevedendo opportune dotazioni finanziarie: a tale scopo, è razionalità e buon senso far confluire tutte le risorse per diritto allo studio e merito (provenienti anche da dotazioni di altri ministeri o da specifici progetti come il progetto Diritto al Futuro dell’ex Ministro della Gioventù) in un unico fondo che assicuri prioritariamente l’erogazione delle risorse per tutti gli aventi diritto alle borse di studio, e i sostegni per premiare il merito disgiunto dal reddito siano erogati solo attraverso risorse aggiuntive;

iii) obbligatorietà dell’erogazione di un contributo in denaro integrativo della borsa ai partecipanti a programmi di mobilità internazionale, poiché lo status socio-economico familiare è attualmente una forte discriminante nell’accesso a questi programmi.

Per realizzare pienamente il dettato costituzionale, in realtà, occorre costruire attorno alle università un vero welfare studentesco che vada incontro a tutti i bisogni della popolazione universitaria in modo da incoraggiare le immatricolazioni ed abbattere la dispersione. Serve un cospicuo investimento nelle residenze universitarie – anche attraverso le risorse dei Fondi strutturali – per sostenere la mobilità degli studenti (solo il 3% della popolazione universitaria beneficia di posto letto e il costo dell’alloggio è quello che pesa maggiormente nel budget di spesa di uno studente), prevedendo un’azione di programmazione che parta dal monitoraggio degli effetti della legge 338/2000 sulle residenze universitarie.

Con riferimento alle tasse universitarie, si deve partire dal presupposto che l’Italia è uno dei paesi UE in cui esse sono più elevate (siamo al terzo posto): per tale ragione è sbagliato ipotizzare un loro innalzamento, così come rendere maggiormente elastico il criterio del 20% del contributo degli studenti al finanziamento ordinario. E se le risorse ordinarie diminuiscono – è il caso di questi anni – è giusto che con esse diminuiscano in valore assoluto anche le tasse, proprio perché il rapporto riferisce la contribuzione degli studenti ai costi ordinari dell’università, e non è pensabile bilanciare i minori trasferimenti statali con un aumento – anche solo proporzionale – della contribuzione studentesca. Consideriamo, a tale proposito, positivo che nel Report conclusivo dell’Eurogruppo del 29 novembre non compaiano più i criptici – e criticabili – inviti, già presenti nella fitta corrispondenza tra governo italiano e istituzioni europee, a rendere maggiormente flessibile il rapporto tra tassazione a carico degli studenti e servizi resi dagli Atenei.

Occorre piuttosto rendere la tassazione maggiormente progressiva e più omogenea territorialmente.  Quanto al tema dei prestiti, molto dibattuto negli ultimi tempi, è necessario affermare che essi non possono essere finalizzati al pagamento delle tasse universitarie. Sarebbe sbagliato, in altri termini, che tale sistema costituisse una leva per l’aumento delle risorse ordinarie per l’università attraverso un incremento notevolissimo delle tasse: al fine di spostare il peso del costo dell’istruzione sulle spalle di chi ne trae effettivo beneficio occorre intervenire prioritariamente sul diritto allo studio, così da mutare la composizione sociale della popolazione universitaria, accompagnando questo sostegno con una valutazione severa dei requisiti per l’accesso e il mantenimento. Il sistema dei prestiti agevolati, invece, può essere sperimentato avendo riguardo a specifiche situazioni, quali quelle degli studenti che attualmente accedono in minor misura (o per niente) a forme di agevolazione (ad esempio gli iscritti ai master, i dottorandi e gli specializzandi) o delle fasce degli studenti che superano (entro determinati limiti) i requisiti reddituali per l’erogazione delle borse di studio, accomunate dal fatto che potrebbero vedersi costretti comunque a chiedere un sostegno finanziario a condizioni decisamente peggiori di quelle di un prestito per sostenere i costi diretti e, ancor più, indiretti della loro permanenza all’università.

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Sbloccare e rendere stabile l’accesso alle carriere

Il rilancio del sistema universitario non può prescindere dal superamento di una paralisi nel reclutamento che si trascina ormai da un triennio. A un anno dall’approvazione della legge 240, il varo della prima procedura di abilitazione nazionale, preliminare al nuovo reclutamento, non è ancora in vista.

Occorre dunque porre fine ai ritardi nell’emanazione dei provvedimenti necessari per l’avvio delle procedure di abilitazione nazionale e accelerare l’attuazione del piano straordinario per la chiamata di professori associati previsto dalla legge 240, svincolando la distribuzione dal rapporto assegni fissi/FFO dei singoli atenei (come prevede il PD in una proposta di legge, prima firmataria Ghizzoni, sottoscritta da tutte le forze politiche nella commissione Cultura della Camera).

Si deve, in sintesi, sbloccare il reclutamento e rendere continuo, stabile e certo il processo di ingresso e carriera. Da troppi anni, al contrario, i concorsi per l’ingresso di giovani talenti nelle università sono praticamente bloccati, con il risultato di un progressivo ed inesorabile assottigliamento ed invecchiamento del corpo docente e ricercatore. Analogamente, da troppo tempo a docenti e ricercatori è negata la possibilità di misurarsi per l’accesso a ruoli superiori.

Per evitare un’inaccettabile durata della fase ‘precaria’ del rapporto fino alla soglia dei quarant’anni ed oltre, occorre superare da subito l’artificiosa distinzione fra assegni di ricerca e contratti a TD di tipo a), per farli convergere, com’era negli auspici e nelle proposte del PD, verso un contratto unico di ricerca, e far diventare i TD di tipo b) una vera tenure track. E in ogni caso, poiché la valorizzazione del merito e del talento è necessariamente legata all’esistenza di momenti di crescita personale e professionale,  occorre incentivare l’attivazione dei contratti a TD di tipo b), fornendo alle amministrazioni tutte le indicazioni tecniche necessarie e vigilando tuttavia rigorosamente sulla puntuale applicazione della norma che prevede il preventivo accantonamento delle risorse per l’ingresso dei ricercatori a TD di tipo b), che conseguono l’abilitazione scientifica nazionale entro il triennio del loro contratto, nei ruoli dei professori associati.

L’obiettivo deve essere quello di superare la condizione attuale, che la Legge 240, nonostante le reiterate dichiarazioni, non potrà che aggravare, con interminabili e mal retribuiti percorsi di precariato che hanno elevato a oltre 40 anni l’età dell’ingresso in ruolo. Per andare oltre il circuito vizioso della precarietà e dell’incertezza, è necessario invece ridurre l’età di accesso e guardare alle altre nazioni avanzate, che responsabilizzano i giovani e concedono loro la possibilità di fare ricerca in modo autonomo e costituire propri gruppi ad un’età nella quale, secondo questa legge, un talento italiano dovrebbe ancora barcamenarsi fra borse e contratti di vario genere. Preliminarmente a queste valutazioni occorre avere chiaro che la prospettiva verso la quale il sistema è indirizzato è insostenibile: poiché abbiamo un rapporto tra studenti e docenti superiore alla media UE, e dobbiamo raggiungere un numero ancora maggiore di studenti, occorrerebbe porsi l’obiettivo di aumentare, gradualmente e in modo programmato, il numero dei docenti strutturati, puntando al contempo a una riduzione della loro età media (la più alta al mondo, aumentata sensibilmente negli ultimi anni). Al contrario, gli attuali vincoli rischiano di condurre in pochi anni al dimezzamento dei docenti strutturati, con effetti drammatici per la qualità della ricerca, della didattica e per la trasmissione, tra studiosi e tra questi e gli studenti, del sapere.

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La ricerca, anima dell’università e centro dello sviluppo

Il ruolo della ricerca universitaria, che costituisce l’ossatura e la parte maggiore del sistema ricerca del Paese, deve essere rivalutato senza distinzione di discipline, ma con una particolare attenzione per la curiosità innovativa e l’avanzamento della conoscenza in ogni campo.

È necessario anzitutto sostenere con decisione i progetti di ricerca di interesse nazionale (PRIN), il cui finanziamento è sceso ai minimi storici in un perenne stato di incertezza su tempi e regole. Occorre agire affinché sia ripristinata un’assoluta trasparenza nei meccanismi di assegnazione dei finanziamenti, utilizzando ovunque possibile metodologie e competenze internazionali e imponendo nette separazioni di ruoli per evitare continui conflitti di interesse. Dobbiamo porre sempre maggiore attenzione alle politiche europee nella programmazione delle linee strategiche della ricerca. L’obiettivo del PD è la costituzione di un’unica agenzia nazionale di finanziamento che superi i mille rivoli della gestione frammentata fra diversi Ministeri dove la burocrazia e l’inefficienza prevengono la distribuzione meritocratica e trasparente delle risorse secondo obiettivi nazionali. Tale agenzia consentirebbe anche di abbattere gli steccati fra settori disciplinari, favorendo l’interdisciplinarietà e superando la tradizionale divisione fra ricerca di base e applicata. La regola che l’agenzia dovrebbe seguire è quella di premiare le idee e le persone meritevoli con la massima trasparenza.

Nella fase contingente, il processo di profonda revisione di tutti gli enti vigilati dal MIUR, che ha visto il suo culmine con l’approvazione dei nuovi statuti e la nomina di tutti i Presidenti degli Enti comporta l’esigenza di una rapida verifica al fine di avere la certezza che tutti gli enti siano allineati alle esigenze del Paese, oltre che correggere eventuali anomalie.

È anche necessario rivisitare il Piano Nazionale della Ricerca al fine di superare l’attuale condizione che riduce al minimo i fondi del FOE non legati ai costi fissi per le ricerche attualmente svolte dagli enti di ricerca, focalizzando tutte le risorse “libere” su 14 mega progetti bandiera decisi al MIUR senza alcuna procedura di peer review, caso probabilmente unico nei paesi dell’UE. A tale scopo è opportuno che una commissione di altissimo livello internazionale analizzi in tempi brevi il PNR e faccia le relative raccomandazioni al ministro.

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Sistema universitario, risorse e valutazione

Con riferimento alle risorse, pur con i vincoli determinati dalla crisi economica, qualche segnale di inversione di rotta è possibile, magari limitato in termini finanziari – intervenendo ad esempio sull’estensione dei meccanismi di defiscalizzazione al sostegno ordinario all’attività del sistema o di singoli Atenei – ma certamente significativo in termini politici e normativi.

Anche sul versante dei meccanismi di ripartizione delle risorse ordinarie, crediamo che il primo modo per bilanciare la loro scarsità sia rappresentato da programmazione pluriennale, assegnazione tempestiva (entro il 31 gennaio di ciascun anno), nuovi criteri trasparenti per l’assegnazione di una quota variabile di risorse il più possibile ampia. Questi ultimi devono essere improntati all’obiettivo di distinguere tra una base assicurata a ciascun ateneo, e una percentuale, sempre più ampia, assegnata in base alla valutazione, all’individuazione di un costo standard per studente, al numero di studenti fuori sede, all’internazionalizzazione e alla coesione territoriale, da realizzarsi con piani regionali del sistema universitario e con la finalità di garantire che in tutto il territorio vi sia un’adeguata presenza di strutture di qualità. A questo scopo deve intervenire anche l’operatività dei meccanismi di accreditamento, e l’introduzione di meccanismi che rendano chiaro il livello di formazione impartito dalle singole strutture universitarie (come la sperimentazione di test di verifica della preparazione degli studenti in ingresso e in uscita).

È del tutto condivisibile la prospettiva di assegnare quote crescenti del FFO in base agli esiti della valutazione. A tal proposito è bene tener presente che gran parte degli atenei utilizza il 90% e oltre del proprio FFO per il pagamento degli stipendi e per altre spese di minore entità comunque incomprimibili (bollette, manutenzione ordinaria…), anche a causa di una costante diminuzione delle risorse trasferite dallo Stato repentina e non programmata.Anche considerando altre entrate (fra le quali la contribuzione studentesca, che in ogni caso non può e non dovrà superare il 20% del FFO), è comunque evidente che l’elevazione della quota variabile dovrà essere conseguita in modo programmato e graduale. In un’ottica di superamento delle attuali limitazioni al turn-over, si può prioritariamente pensare ad una redistribuzione dei punti organico, lasciando agli atenei il 50% dell’intera quota dei punti organico resi disponibili ogni anno e assegnando il resto in base alla valutazione, fissate comunque le consistenze minime degli atenei necessarie per assicurare la presenza di adeguati sistemi di istruzione universitaria su base regionale.

La valutazione può essere quindi la chiave per innescare comportamenti virtuosi nell’ambito di una responsabile autonomia universitaria. La fase valutativa deve essere vista da atenei, dipartimenti, docenti e ricercatori come un’opportunità per il riconoscimento e la valorizzazione del proprio lavoro e delle proprie capacità. Per conseguire questo risultato occorre abbandonare approcci formalistici, punitivi ed iper-burocratici ed individuare, anche in base alle migliori esperienze internazionali, strumenti di valutazione dei risultati che partano dalla definizione di obiettivi condivisi, stabili nel tempo e, fatta salva la prima necessaria fase di avvio, resi noti in anticipo. È importante che l’ANVUR consolidi la propria attività, in piena indipendenza dalle funzioni ministeriali, dedicando attenzione prioritaria alle funzioni di valutazione rispetto a quelle di supporto delle attività del ministero e di normativa tecnica. In linea di principio occorre che l’ANVUR dedichi l’attenzione prevalente alla valutazione delle strutture universitarie demandando invece agli atenei la valutazione di singole iniziative e delle performance individuali.

Riguardo la possibilità di fonti di finanziamento alternative, la European University Association (EUA) ha recentemente ribadito che incrementare e diversificare le fonti di reddito costituisce un fattore di successo cui le università europee devono saper mirare, aggiungendo che è necessario diffondere negli atenei la piena consapevolezza dei costi delle attività sviluppate. In questo senso occorre promuovere la capacità degli atenei italiani di attivare fonti multiple di reddito mettendo a frutto le proprie peculiarità in termini di composizione del corpo accademico, interazione con i territori e presenza di infrastrutture di ricerca e di servizio. Non si tratta di imporre ricette centralistiche, ma di incoraggiare la capacità degli atenei di attivare fonti di reddito autonome.

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Autonomia universitaria

È necessario costruire finalmente un assetto efficiente e  responsabile rispetto al sistema paese della politica autonomistica. Da quando questa è stata inaugurata, più di vent’anni fa, la sua attuazione è stata caratterizzata da due patologie. Da una parte le università hanno usato in modo poco responsabile l’autonomia gestionale, didattica, organizzativa e finanziaria che era stata loro attribuita. Dall’altra parte il centro del sistema (il ministero) non si è dimostrato capace di guidare a distanza il sistema universitario, ma ha indugiato nelle tradizionali pratiche di regolazione diretta del comportamento universitario e di controllo dei processi piuttosto che di verifica dei risultati (a onor del vero, spesso per porre rimedio agli effetti di un uso inadeguato dell’autonomia da parte delle università). È giunta l’ora, pertanto, di ridisegnare i ruoli che spettano, in una logica virtuosa dell’autonomia, alle singole università e al Ministero. A questo spetta il compito di indirizzare il sistema, attraverso la definizione di obbiettivi sistemici da raggiungere (nella didattica, nella ricerca e nella terza missione) all’interno di un piano almeno decennale di sviluppo del sistema universitario. La valutazione è al centro di questa strategia, ma  deve essere capace di esaltare le diverse eccellenze dell’azione delle università (non solo, quindi nella ricerca di base, ma anche nella ricerca applicata, nel sostegno allo sviluppo socio-economico dei territori, nella didattica di base, nei dottorati). Alle università deve essere garantita la possibilità di disegnare – cosa consentita anche della L. 240 – gli assetti organizzativi più coerenti con la missione che esse devono necessariamente scegliersi. Il principio generale che deve informare questa ridefinizione della politica autonomistica deve essere quello di perseguire l’eccellenza nella differenziazione.

Dunque, a questi fini, nella relazione tra organi di governo nazionali e atenei occorre aprire spazi di autonomia, che favoriscano la differenziazione delle strategie, pur non rinunciando al contrasto di comportamenti opportunistici e degenerativi. Abbandonare l’approccio centralistico e iper-burocratico richiede anzitutto un ripensamento delle funzioni e delle competenze del Ministero dell’Università che deve passare dalla logica dell’uniformità e della standardizzazione alla logica delle promozione e della valutazione del pluralismo. È in questo senso centrale impostare azioni per potenziare gli uffici ministeriali addetti alla programmazione del sistema universitario.

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Didattica, accreditamento e dottorati di ricerca

Per quanto riguarda la didattica, il Ministero dovrebbe monitorare il mutamento della governance interna degli atenei con l’abolizione delle facoltà, senza imposizioni burocratiche, anche in vista della valutazione e dell’accreditamento dei corsi di studio. Rischiano infatti di indebolirsi e di essere deresponsabilizzate la loro organizzazione e gestione, come la loro corretta progettazione culturale, soprattutto negli aspetti multidisciplinari.

Crediamo si debba anticipare il più possibile il momento nel quale lo studente esce dalla “protezione” del suo territorio e dell’ateneo, per dare a tutti in tempo utile la possibilità di comprendere il valore degli studi compiuti e il livello qualitativo del corso di laurea che si è frequentato e per agire come forza di pressione per il continuo miglioramento. A quest’obiettivo possono contribuire la fase di valutazione degli atenei e specifici meccanismi di incentivo/disincentivo, anche collegati ai compensi, che premino i docenti più attivi e viceversa penalizzino quelli meno presenti nel sostegno alle attività didattiche e di ricerca. Alcune proposte specifiche:

i) con riferimento al valore legale, in particolare, una severa analisi in sede di accreditamento delle strutture dotate della facoltà di attribuire titoli con valore legale;

ii) che sia mantenuta la terzietà della valutazione, e che questa tenga massimamente conto delle percentuali adeguate di personale strutturato e a tempo pieno;

iii) a proposito del valore legale del titolo di studio, occorre prevenirne le distorsioni, ad esempio attraverso l’abolizione del valore legale del voto di laurea (le P.A. dovrebbero condizionare le procedure selettive concorsuali al solo titolo di studio) o l’eliminazione della connessione tra acquisizione di un titolo di studio nel corso dell’attività professionale nelle P.A. e progressioni interne di carriera, le quali invece dovrebbero dipendere esclusivamente dal livello di competenze effettivamente acquisite;

iv) chiediamo una specifica analisi nei confronti delle università telematiche, fenomeno che sta assumendo tratti sempre più preoccupanti in termini di qualità e correttezza delle attività svolte e del livello di formazione impartita;

v) una innovazione ineludibile è rappresentata dal test unico nazionale per l’accesso alle facoltà di medicina.

Per tornare al tema del diritto allo studio, riteniamo che in una concezione avanzata ed evoluta esso debba consistere non solo nel dotare gli studenti delle risorse necessarie per svolgere gli studi, ma in un impegno a 360 gradi affinché l’offerta formativa erogata dagli atenei sia costruita intorno alle esigenze e ai bisogni formativi degli studenti e non esclusivamente sulla base di equilibri e accordi accademici. Occorre progettare con cura i corsi di studio e garantire la possibilità per gli studenti di ottenere quanto promesso in fase d’iscrizione. Nel concreto, questo significa che i percorsi formativi devono essere percorribili nel tempo previsto (superando con decisione i casi – purtroppo  ancora diffusi – di corsi di laurea con percentuali infime di laureati in corso), devono tenere conto dell’occupabilità dei laureati formati, devono adottare piani degli studi e metodologie didattiche che favoriscono l’apprendimento da parte dei discenti.

La formazione post-laurea e il dottorato di ricerca sono temi centrali, e per questa ragione ad essi – così come all’apertura e all’internazionalizzazione del sistema – dedicheremo un focus specifico. Quel che è certo è che l’occasione offerta dalla definizione della nuova normativa sui dottorati e sulle scuole di dottorato in via di emanazione deve essere colta per stabilire una maggiore sintonia con la concezione degli studi dottorali prevalente in sede europea, anche attraverso la fissazione di fissare regole certe per l’attivazione di corsi di dottorato. La possibilità per gli atenei di istituire i corsi di dottorato deve essere vincolata alla loro effettiva capacità di offrire standard di ricerca elevati e percorsi formativi di qualità ai giovani ricercatori. Il dottorato di ricerca, inoltre, deve essere valorizzato e reso sempre più spendibile nel mercato del lavoro, sia nella pubblica amministrazione che nel mondo delle imprese, anche attraverso meccanismi di incentivazione all’assunzione di dottori di ricerca (come sostenevano proposte emendative del PD alla L. 240). È necessario disporre interventi normativi e politiche economiche di sviluppo che garantiscano allo stesso tempo un’adeguata formazione per i dottorandi e una migliore sinergia delle accademie con il mondo che le circonda. Grande attenzione va poi dedicata alla possibilità per i laureati di accedere al più alto livello di formazione: l’accesso e la frequenza dei corsi deve essere garantita a tutti i meritevoli privi di mezzi economici propri. Ciò implica la necessità di rivedere il livello della tassazione di ingresso e il progressivo superamento dei dottorati senza borsa.

Un esempio è il sistema proposto dall’Osservatorio regionale per l’Università della Regione Piemonte, adottato nel 2011/12 dal Politecnico di Torino, per cui ad ogni incremento di 1.000 euro di ISEE corrisponde una diversa fascia contributiva. Si ipotizza un importo per la prima fascia pari a 300 euro ed un incremento della tassa da una fascia all’altra di 30 euro, di conseguenza chi rientra nell’ultima fascia (con oltre 80.500 di ISEE) pagherebbe 2.130 euro.


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