25 Aprile – #ilcoraggiodi

Liberazione 1945 - 2015


“…l’Italia non è purtroppo quale noi la vedevamo nelle nostre speranze (…) ed il fascismo come spirito, se non come organizzazione, non è scomparso. È un po’ dappertutto: (…) soprattutto nella forma mentale impressa agli italiani, nell’intolleranza, nella vanità, nella vacuità dei discorsi e dei ragionamenti”.

Così scriveva Egidio Reale, parlamentare del Partito Repubblicano, all’amico Salvemini, nel 1946. E non deve stupire più di tanto questa affermazione, perché se “fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”, così sconfitti i fascisti, bisognava sconfiggere il fascismo. L’abbattimento del regime e la successiva liberazione dalla dominazione tedesca non comportano ipso facto la trasformazione della mentalità di un intero Paese. E non potrebbe essere altrimenti, dopo vent’anni di un regime che ha permeato la vita della popolazione, influenzadone gli usi, i costumi e persino la lingua.

Ma se nel 1946 poteva essere comprensibile che l’Italia non fosse ancora completamente “bonificata” dalle scorie del fascismo, fa male accorgersi come le parole di Reale suonino ancora, a settant’anni di distanza, tristemente attuali. Sì, perché “il fascismo come spirito” non è scomparso, non lo è affatto.
Si badi bene: il fascismo come ideologia politica, oggi, non è una minaccia concreta per la democrazia italiana e, anzi, con la XII disposizione transitoria e finale della Costituzione, quella che vieta la ricostituzione del partito fascista sotto qualsiasi forma, viene bandito dal “gioco politico” della Repubblica Italiana. Si potrebbe dibattere per ore sull’effettiva applicazione di tale disposizione, vista la galassia di gruppi e gruppuscoli che si dichiarano fieri eredi del credo fascista, ma non è su questo che voglio concentrare l’attenzione.
Il fatto che esistano formazioni politiche nostalgiche (e che alcune di esse possano anche contare su un solido, seppur modesto, bagaglio di voti) deve far riflettere, certo, ma per capirne le cause bisogna andare a monte: per dirla con le parole di Reale, da analizzare è la “forma mentale” degli italiani, o di una parte di essi, ancora largamente impregnata di fascismo.

Ma cosa significa “mentalità fascista”, oggi? Con questa espressione intendo riferirmi, appunto, “all’intolleranza, alla vanità, alla vacuità dei discorsi e dei ragionamenti”, per rifarsi nuovamente alla citazione iniziale, ovvero a tutte quelle forme di prevaricazione dell’uno sull’altro, la presunta superiorità ontologica di un determinato gruppo, l’idea che esista una “purezza” da preservare, tutte quelle situazioni, in sostanza, in cui ci si trova a distinguere tra noi-e-loro, qualunque cosa significhino “noi” e “loro”, cercando di schematizzare in modo semplificatorio situazioni e problematiche che sono, in realtà, di grande complessità.
E se oggi il fascismo è questo, è fin troppo facile vedere come in Italia esso sia vivo, anzi, più vivo oggi che mai. È vivo nella classe politica, certo, ma è vivo soprattutto nella società, di cui inevitabilmente la classe politica è sempre uno specchio fedele.
È fascista, secondo questa definizione, chi vuole usare le ruspe nei campi nomadi (noi, società sana, e loro, i rom); è fascista, secondo questa definizione, chi vuole bombardare le navi dei migranti o chi gioisce (e quanti se ne sono visti) della morte di quasi mille persone (noi, gli italiani, e loro, gli stranieri, ma solo quelli poveri e neri, ovviamente); è fascista, secondo questa definizione, chi si augura la distruzione di Montecitorio e “dei politici”, invece che una migliore qualità della democrazia (noi, i cittadini onesti che però magari preferiamo pagare qualcosina in nero, sa, le tasse sono alte, lo Stato ci ruba i soldi, e loro, i politici, ladri, corrotti, mafiosi, tutti uguali, tutti schifosi); è fascista, secondo questa definizione (ma forse non solo secondo questa definizione), chi alla Diaz ci rientrerebbe altre mille e mille volte (noi, l’ordine, il Bene, e loro, le “zecche”, il Male).

E allora cosa si fa? Come si sconfigge questo cancro che ci infesta da quasi un secolo? Con una battaglia dura. No, non una battaglia con le armi, con una battaglia politica, ma ancor prima con una battaglia culturale.
Parlando proprio di fascismo e antifascismo, Gaetano Arfé, direttore dell’Avanti! e di Mondoperaio, storico ed esponente di spicco del Partito Socialista, in un intervento sul settimanale comunista Rinascita ebbe a scrivere: 

“Credo che sia venuto il momento di rivalutare (…) accanto alla tolleranza l’intransigenza: riconoscere a tutti, anche ai cialtroni, il diritto alla parola, ma astenersi dall’offrir loro delle tribune, e soprattutto rivendicare ed esercitare il diritto di dire che si tratta di cialtronerie”.

Combattere una battaglia culturale significa questo: non si tratta di inculcare dei valori o un’identità politica, si tratta di non dare più spazio di quanto è necessario ai cialtroni, come li chiama Arfé, e soprattutto di controbattere colpo su colpo alle infamie di questo tipo, significa non voltarsi dall’altra parte, significa, più di ogni cosa, interessarsi: “I Care”, diceva Don Milani, in opposizione al “Me ne frego!” fascista. “Avere a cuore”, avere a cuore la propria famiglia, il prossimo, il proprio Paese, anche il proprio partito, per chi ne ha uno, insomma, quello che volete, ma non “fregarsene”, non dire “non mi riguarda”, non dire “noi-e-loro”, ma solo “Noi”.

Oggi è il 25 aprile, la data più importante, insieme al 2 giugno, per la nostra Repubblica, l’una il concepimento e l’altra la data di nascita, per così dire, della democrazia italiana. Sono passati settant’anni da quando Corrado annunciava alla radio che i tedeschi si sono arresi e che la guerra è finita, ma nonostante sette decadi e la scomparsa di quasi tutti i testimoni di quegli avvenimenti, l’antifascismo e la Resistenza restano, anzi, devono restare, i pilastri portanti della nostra democrazia, una conditio sine qua non per chiunque si avvicini alla politica, perché è su quei monti, i monti sui cui salirono i partigiani, come affermò Piero Calamandrei, che nacque la Costituzione repubblicana.
Tocca a noi, oggi, continuare, con altre armi, la loro lotta “per una società pacifica e democratica, ragionevolmente giusta, se non proprio giusta in senso assoluto, ché di queste non ce ne sono”.

Buon 25 aprile.

Ora e sempre, Resistenza.

Dennis Turrin


Trent’anni senza Enrico

sorriso-berlinguer

Premessa: esistono personaggi, nella storia del nostro Paese, anche nella politica del nostro Paese, la cui grandezza travalica quelli che sono gli “steccati ideologici”, per cui “tirarli per la giacchetta” o “metterci una bandierina” a scopo propagandistico o per fini elettorali risulta degradante e inopportuno, chiunque lo faccia, né questo articolo ha lo scopo di farlo.

Il 7 giugno 1984, in Piazza della Frutta, nel centro storico di Padova, si stava tenendo un comizio del Partito Comunista Italiano, in vista delle elezioni europee in programma dieci giorni dopo. La piazza era gremita, tutti erano lì per ascoltare l’uomo che parlava dal palco col suo inconfondibile accento sardo.
Poi, ad un certo punto, qualcosa va storto: l’oratore fatica a parlare, si porta il fazzoletto alla bocca, si blocca ripetutamente. Il pubblico si accorge delle sue difficoltà e lo esorta a fermarsi, ma lui continua, fino alla fine.
“Lavorate tutti, casa per casa, azienda per azienda, strada per strada, dialogando con i cittadini”, dice. Poi solleva il viso, guarda la piazza, e, con fatica, sorride. Per l’ultima volta.
Poco più tardi, entra in coma, viene portato in ospedale, dove si scopre che aveva avuto un ictus: le sue condizioni sono drammatiche. L’11 giugno 1984 si spegne. Viene riportato a Roma “come un amico fraterno, come un figlio, come un compagno di lotta” dal Presidente Pertini, sull’aereo presidenziale, nonostante le proteste del PSI craxiano.
Il 13 giugno si tengono i funerali in piazza San Giovanni: i più partecipati della storia d’Italia, fino a quelli di Papa Giovanni Paolo II, agli inizi del nostro secolo.
Il 17 giugno, alle elezioni europee, sull’onda emotiva di quel dramma, il Partito Comunista Italiano era il primo partito, operando lo storico sorpasso sulla DC, mai più ripetuto.

Quell’uomo era il segretario del Partito Comunista Italiano e si chiamava Enrico Berlinguer.

Enrico Berlinguer è stato un personaggio fondamentale della Prima Repubblica e del decennio più duro, gli anni ’70, in particolare. Ed è stato anche un personaggio particolare, assolutamente unico: era l’anti-divo per eccellenza, mai al di sopra delle righe, assolutamente mai volgare. Fu per più di un decennio l’esponente principale del suo partito, ma non lo si sentiva mai dire “io…”, sempre “noi comunisti…”, diceva di non voler morire segretario come Togliatti e Longo, ma un ictus a soli 62 anni gli riservò lo stesso destino dei suoi predecessori.
Dicevano fosse triste, lo chiamavano “il sardo muto”, e a lui dava fastidio, come ebbe a dire in un’intervista a Giovanni Minoli, a Mixer, perché non era vero fosse un uomo triste, e il suo sorriso è lì a ricordarcelo, ancora oggi.

La politica di Berlinguer era qualcosa di estremamente lontano da quella a cui siamo abituati oggi: Berlinguer centellinava le apparizioni televisive; non twittava né lanciava hashtag, (sì, ovvio, i social network non esistevano), 140 caratteri sarebbero stati troppo pochi per lui, che sosteneva la necessità di “reinvestire la politica di pensieri lunghi”. Berlinguer non lanciava invettive, perché “gli anatemi sono espressioni di fanatismo e v’è troppo fanatismo nel mondo” (mi pare scontato aggiungere che non regalava nemmeno dentiere).

Oggi Berlinguer viene ricordato quasi esclusivamente per la “Questione Morale”, espressione usata dalla politica odierna nei modi più disparati e assolutamente impropri, ma fu anche il segretario che guidò il PCI al suo massimo storico, alle elezioni politiche del 1976, con il 34,4% (più di 12 milioni e 600mila voti), fu il segretario del “Compromesso Storico” con la DC di Moro, e fu il segretario che mantenne il PCI fermo nella scelta di non piegarsi a trattare coi terroristi, come volevano fare parte della DC e del PSI, quando lo stesso Moro fu rapito.
Ma, a mio parere, il contributo più importante di Enrico Berlinguer fu il suo impegno costante per inserire nel sistema di valori del PCI quello della democrazia: già nel ’68, quando era vice-segretario ed erede designato di Longo, si schierò fermamente con il tentativo di un “socialismo dal volto umano” attuato da Dubcek in Cecoslovacchia, opponendosi (e il PCI fu l’unico dei partiti comunisti a farlo) all’invasione sovietica che stroncò sul nascere la “Primavera di Praga”, fu il primo comunista a sostenere che “l’Unione Sovietica ha esaurito la sua spinta propulsiva” e a difendere la scelta italiana di restare nella NATO.

Il Segretario di Stato Henry Kissinger (che, invece, con la democrazia non è che abbia mai avuto un bel rapporto: chiedere ai cileni per conferma…) lo definì “il comunista più pericoloso”, perché non rispondeva ai soliti canoni del comunista, era un uomo di cultura che si era formato sì su Marx, ma anche su Voltaire e Bakunin, non poteva essere additato a “mangiabambini”, non sarebbe stato credibile in quel ruolo stereotipato.
Ma se a Washington non era amato, a Mosca probabilmente era proprio odiato: nel 1973, a Sofia, in Bulgaria, fu persino vittima di un attentato da cui uscì miracolosamente illeso.

Quella di Berlinguer è una politica lontana nel tempo, ma il suo pensiero è quanto di più moderno possa esistere. Chiariamoci, non si potrebbe fare un “copia-incolla” e proporlo ai giorni nostri, i tempi sono cambiati, le situazioni sono cambiate, gli attori sono cambiati, ma i valori, gli obiettivi che la sua politica si poneva valgono, pressoché immutati, ancora oggi. Qualche esempio? In primis, proprio la “Questione Morale”, che non è il giustizialismo manettaro che crede qualcuno. Già nel ’74 ne parlava, ma il tema divenne centrale dopo la famosissima intervista rilasciata a Scalfari “Dove va il PCI?” del 1981, in cui sosteneva che “i partiti oggi sono macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimento e passione civile, zero”. Parole quasi profetizzanti, alla luce degli avvenimenti di questi giorni (ma sarebbe da dire “di questi anni”), se si pensa che sono state pronunciate più di tre decenni fa.
Altrettanto si può dire del “Compromesso Storico”,  tanto osteggiato da militanti e dirigenti del partito al tempo, ma che altro non fu che il primo tentativo, tristemente finito con la vita di Aldo Moro, quel 9 maggio ’78 in via Caetani, di superare la conventio ad excludendum che impediva al PCI di diventare una forza di governo alternativa all’egemonia democristiana.

Quella battuta da Enrico Berlinguer era una via molto impervia, un sentiero stretto, per rimanere sempre fedele ai suoi ideali, ma con una sana dose di pragmatismo che non è mai mancata nella sua azione politica.
Studiando per un esame di storia contemporanea, lessi una frase che mi scandalizzò. Secondo l’autore del testo, Craxi aveva saputo interpretare meglio di Berlinguer l’Italia degli anni ’80. Ripensandoci, tempo dopo, mi resi conto che era parzialmente vero: parzialmente nel senso che Craxi ha saputo adattarsi meglio a quelli che erano i primi anni ’80, perché Berlinguer non si adattava, il PCI del segretario sassarese ha sempre cercato di cambiare la società, anche quando poteva essere svantaggioso in termini elettorali.

Ma il segretario Enrico Berlinguer è morto da trent’anni, e questo non può cambiare. Andare avanti è indispensabile, ma anche guardare indietro lo è. Perché non c’è futuro, se si dimenticano le proprie radici. Ed Enrico Berlinguer è, senza alcun dubbio, la base più solida che la sinistra italiana abbia avuto, per tornare finalmente là, “casa per casa, azienda per azienda, strada per strada, dialogando con i cittadini”.

Ciao, compagno Enrico.

Dennis Turrin


Resistenza: un monumento da preservare

“Lo avrai
camerata Kesserling
il monumento che pretendi da noi italiani
ma con che pietra si costruirà
a deciderlo tocca a noi
non con i sassi affumicati dei borghi inermi
straziati dal tuo sterminio
non con la terra dei cimiteri
dove i nostri compagni giovinetti
riposano in serenità
non con la neve inviolata delle montagne
che per due inverni ti sfidarono
non con la primavera di queste valli
che ti vide fuggire
ma soltanto con il silenzio dei torturati
più duro d’ogni macigno
soltanto con la roccia di questo patto
giurato fra uomini liberi che volontari si adunarono
per dignità non per odio
decisi a riscattare la vergogna e il terrore del mondo
su queste strade se vorrai tornare
ai nostri posti ci ritroverai
morti e vivi con lo stesso impegno
popolo serrato intorno al monumento
che si chiama ora e sempre
Resistenza.”

Con queste parole, Piero Calamandrei rispose ad Albert Kesselring, il generale nazista che dichiarò di meritare una statua dagli italiani, per l’opera da lui compiuta come comandante in capo delle forze di occupazione tedesche nel nostro Paese (tra le sue “opere”, Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, le Fosse Ardeatine…).

Ma lasciando da parte i deliri del generale Kesselring, concentriamoci un momento sulle parole di Calamandrei, in particolare sulle ultime due righe: cosa rimane, oggi, dopo 69 anni, di quel “monumento che sia chiama ora e sempre Resistenza”?
Che cosa rappresenta la Resistenza, ora che i testimoni diretti di quei giorni sono sempre meno?

E, cosa ancora più importante, che cosa rappresenta per noi giovani di 15-20-30 anni, che quelle storie le abbiamo solo sentite dai nonni o lette nei libri?

Come detto, la Resistenza è un monumento, e come tale deve essere trattato: se un monumento non viene curato, protetto, ripulito, finisce per essere rovinato dal vento, dalle piogge, dai ragazzetti che ci scrivono sopra (e sì, pure dai piccioni). E anche per la Resistenza vale lo stesso discorso: se non ce ne prendiamo cura, se la diamo per scontata, quel ricordo viene rovinato. Rovinato dal passare del tempo che offusca la memoria, rovinato da chi dice “A me la storia, la politica, non interessano!”, rovinato da chi cerca di imbrattarlo (come i ragazzetti di cui sopra…o i piccioni, decidete voi) con il fango del revisionismo (che è cosa ben diversa dalla ricerca storiografica, sia chiaro).

Ogni volta che leggo o sento queste derive revisioniste con cui una certa destra cerca di riscrivere la storia della lotta partigiana, giustificando chi ha combattuto per la Repubblica Sociale Italiana o ponendo sullo stesso piano le due fazioni, mi tornano alla mente le parole di Italo Calvino: “Dietro il milite delle Brigate Nere più onesto, più in buonafede, più idealista, c’erano i rastrellamenti, le operazioni di sterminio, le camere di tortura, le deportazioni e l’Olocausto; dietro il partigiano più ignaro, più ladro, più spietato, c’era la lotta per una società pacifica e democratica, ragionevolmente giusta, se non proprio giusta in senso assoluto, che di queste non ce ne sono”.

Da qui io voglio ripartire. Dalla consapevolezza che la nostra Repubblica, nonostante alcuni “rami malati”, da estirpare e far rifiorire, ha le sue radici, forti e profonde, nell’antifascismo, nella lotta di Resistenza, su quei monti su cui tanti sono saliti e da cui troppo pochi sono potuti scendere.
Ci ripetono, da sempre più parti, che siamo in un’epoca post-ideologica, che le “grandi narrazioni” sono finite, che i valori del passato vanno messi da parte per guardare al futuro, ma come quellalbero non potrebbe sopravvivere senza le sue radici, così la nostra Repubblica e la nostra Costituzione non potranno mai essere forti, se noi giovani, soprattutto noi giovani, colpevolmente dimentichiamo le loro origini.

E allora mi permetto, molto sommessamente, di contraddire in parte Piero Calamandrei: la Resistenza non è un monumento nella piazza del paese di cui ci ricordiamo il 25 aprile di ogni anno, non può e non deve essere solo questo.
La Resistenza sono le fondamenta su cui ogni giorno dobbiamo costruire la nostra casa, le nostre vite.

Buona Festa della Liberazione a tutti, dunque, a chi “ci crede” e a chi no. Sì, anche a loro, perché, se oggi sono liberi di dissentire, è proprio perché dei giovani come noi hanno dato la vita per liberarci dal giogo dell’autoritarismo fascista.

Ora e sempre, Resistenza.

Dennis Turrin